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venerdì 4 dicembre 2015

LA GIOVANE AMAZZONE


A CURA DI: Elisa Casu
                                       

Narrare la Sardegna




La ragazza osservava incantata il luccichio del suo uncinetto che nervosamente infilava e sfilava tra le rade maglie della sciarpa di lana che stava ultimando, luccichio che ricordava tanto uno spiritello saltellante che stregava l’atmosfera tutto intorno al camino. Era l’unico momento di riposo che la giovane si concedeva la sera, fermando il tempo delle faccende domestiche e del lavoro sui campi, sempre inchinata a raccogliere i frutti della terra colorati dal sole e coperti dalla polvere, ormai turgidi e maturi al tatto delle sue delicate mani.
Ogni giorno al ritorno dalla campagna l’aspettava l’odiata scopa, il tinozzo con l’acqua mischiata all’aceto per disinfettare e profumare la grande stanza del casolare di campagna. Ma la casa era la sua prigione, era assai felice infatti quando stava all’aperto, anche al freddo e al gelo, poco importava. Era bramosa di respirare l’aria frizzante che arrivava dalle montagne appena innevate del Gennargentu.
Questo era il suo paradiso, una vecchia panca posta a fianco della porta di legno della casa, luogo privilegiato da cui contemplare l’immenso panorama della vallata che si apriva ai suoi occhi, che dava ad un certo punto finalmente spazio alle colline che leste si arrampicavano lasciando poi spazio alle montagne. Gli uliveti ordinati e folti lasciavano cosi posto ad irti boschi selvaggi che pareva celassero con gelosia i segreti dei loro aliti e dei gemiti di vita e di morte, consumati al riparo di un lentischio e di un cespuglio profumato di bacche di mirto. 
La ragazza osservava la montagna con desiderio, quasi vergognandosi dei suoi pensieri che si addentravano tra i sentieri e le caverne nascoste dell’enorme rilievo roccioso.
Il padre, unico affetto, con cui condivideva la sua giovane vita, era assai geloso di lei, della sua bellezza, delle labbra carnose, delle folte sopracciglia nere che incorniciavano quegli occhi vispi neri anch’essi più della pece, e desiderosi più che mai di scoprire, di fuggire.
Il paese era noto per la sagra delle castagne che immancabilmente ogni anno si ripeteva. Il frutto carnoso abbondava nelle campagne del padre della ragazza, e a giorni sarebbero arrivati gli uomini per la raccolta. Per la prima volta la ragazza pensava al loro arrivo con euforia, calore, immaginando già i loro corpi bronzei chinati a raccogliere gli spinosi frutti. In fin dei conti anche lei si sentiva un pò come quelle castagne, fuori ispida, dentro dura di carattere, ma che al calore del fuoco dell’amore avrebbe certamente donato la sua profonda dolcezza.
Il padre la rapì alla realtà: era ormai ora di pranzo, aveva fame e le mani ancora sporche e bluastre dalla raccolta delle olive. L’uomo aveva un solo desiderio lavarsi e mangiare, al tavolo che puntualmente la figlia imbandiva, stavolta con grosse fette di pane nero da inzuppare nella cremosa zuppa di ceci che ribolliva sulla pentola, sopra la brace del camino. Mentre addentava con avidità la fetta di pane, senza alzare lo sguardo si rivolse con autorità alla figlia: “ Crasa benin sos pizzinnos , preparanos s’usthu e lassalu fora , chi benzo deo a lu leare! Abbaida a tie, no bessas e no andes a caddu”! (domani verranno i ragazzi, prepara il pranzo e lasciarlo fuori dall’uscio, non uscire e non cavalcare).
La figlia, fece di si con la testa ma i pensieri seguivano un altro sentiero, e in silenzio si portò alla bocca il cucchiaio colmo della zuppa fumante. 
La gelosia del padre all’inizio la lusingava, la faceva sentire protetta e importante, ora la opprimeva. Nei mattini seduta su quella panca osservava il cielo immenso, e si perdeva a seguire i voli maestosi di un’astore , il cui nido era sicuramente fra le fessure nascoste della vetta più alta. Lo vedeva padrone di quel cieli, padrone della sua libertà. Avrebbe anche lei voluto volteggiare, librarsi nell’aria sentirsi leggera e libera. 
L’indomani i sacchi di iuta vuoti erano legati ai lati de s’imbasthu ( sella) del cavallo, la ragazza mentre buttava via l’acqua sporca dal secchio sulla canaletta a fianco del portone, osservava il padre mentre si dava la spinta sui reni per salire in sella. Amava i cavalli, ma il padre le vietava di cavalcarli, ma a volte lei lo faceva di nascosto, era diventata talmente brava che cavalcava senza sella, incurante della dolorosa tensione delle gambe nel seguire l’andatura del cavallo. Quella mattina dopo che il padre si diresse verso il bosco per raggiungere i ragazzi, lei rientrò in casa, si bagnò il viso con acqua profumata ai petali di rosa, si passò le mani lungo il collo raggiungendo l’insenatura dei suoi caldi seni. Si sentiva rinfrescata, profumata, si sentiva viva! Indossò il completo da amazzone che di nascosto le aveva regalato sua zia. Davanti allo specchio chiuse il penultimo bottone della camicia nera che a malapena conteneva il bel seno. Infilò i pantaloni di velluto e la giacca di velluto, che riprendevano la stessa tonalità della camicia. Tirò le stringhe ai gambali neri, sciolse i lunghi capelli e si ammirò allo specchio. Andò nella stalla mise le redini a Bentu ( Vento) un bellissimo esemplare di anglo arabo sardo e lesta lo cavalcò. Raggiunse il sentiero impervio che portava al bosco. A quell’ora il padre aveva già dato le consegne ai ragazzi e si era diretto dall’altra parte del monte per controllare le sue capre.
La ragazza scese da cavallo con le gambe ancora tese e doloranti dal galoppo, sentiva il suo cuore battere, strinse fra le mani le redini del cavallo accarezzandone il dorso sudato. Iniziò a sentirne le voci, scostò un cespuglio di lentischio e li vide: due corpi chinati, le spalle possenti, la nuca rossastra. Sorrise, in particolare uno di loro attirò la sua attenzione. Ne osservo le spalle, e sorridendo si soffermò sulle natiche che le ricordavano tanto la polpa dura e turgida dei pomodori caldi sotto il sole di luglio. Vide le mani del ragazzo che raccoglievano i frutti spinosi dai rami più bassi, e desiderò per un lungo attimo di essere come quel frutto spinoso tra le sue mani. Il cavallo interruppe il flusso dei suoi desideri, e si impennò spaventato da una lepre che sbucò dalla sua tana. La ragazza con fatica lo tranquillizzò ma i ragazzi si accorsero di lei, la guardarono e quel ragazzo la fissò con curiosità ammirando la visione della giovane amazzone del bosco. Si mosse per andarle incontro ma lei scappò, perdendo però il suo braccialetto di cuoio intrecciato. Il ragazzo lo raccolse, lo strinse fra le mani e lo portò alla bocca sentendone il profumo di acqua di rose.
La ragazza cavalcò, si sentiva tutt’uno col cavallo, povero Bentu incitato ad una lunga corsa fino alla riva di un rio. Qui la ragazza scese da cavallo e si buttò sull’erba ormai esausta, e rise, rise rotolandosi sull’erba bagnata. Era contenta, felice, libera. A pancia in su osservò il cielo, carico quella mattina di nuvole spazzate velocemente dal vento di maestrale e lo rivide: era l’astore che volteggiava librandosi nel vento, ma stavolta non era l’unico padrone del cielo era con un altro astore, probabilmente una femmina che inseguiva in infinite girandole d’amore.
Il padre la sera al ritorno trovò come sempre la tavola imbandita, il fiasco di vino, su pane frattau e sul tagliere un bel pezzo di lardo bianco. Come sempre parlò poco, ma osservò la figlia, la vedeva diversa. Notò i capelli sciolti ne senti il profumo di rose. Ebbe paura, senti un groppo alla gola. Fermò la mano all’altezza del mento col pezzo di pane e lardo e chiuse gli occhi, l’angoscia si impadronì di lui, ricordò la stessa espressione e lo stesso profumo della moglie quella notte. Come impazzito si alzò si avvicino da lei e presala per il braccio le chiese: “ Ses andada a caddu beru?Fisthi inie?)( Hai cavalcato vero? Sei andata da loro?).
La ragazza si divincolò da quella stretta lo guardò con sfida e serrando le labbra tirò indietro con orgoglio una lacrima calda e scappò via.
L’indomani il padre andò alla stalla, ma Bentu non c’era e non c’era neanche la ragazza. Era andata a riprendere il suo bracciale, mentre cavalcava verso il bosco l’emozione di rivedere quel ragazzo riscaldava tutto il suo giovane corpo. Raggiunse il sentiero impervio del bosco, scese da cavallo fece appena in tempo a scostare il cespuglio che sentì alle spalle una calda mano cingerle i fianchi. Con l’altra mano il bel giovine avvicinò il suo viso alla sua bocca, con denti perfettamente bianchi: era il ragazzo del bosco. Mentre il padre chiamava a squarciagola la ragazza il bosco avvolse i due ragazzi nel loro segreto, celandone gli infiniti gemiti d’amore. Mentre in cielo volteggiava ora l’astore con i suoi richiami d’amore verso la sua femmina che ,dopo tanti volteggi librando nell’aria si arrese infine al suo richiamo. Il padre sentì il grido d’amore dei due rapaci, li osservò e finalmente capi che avrebbe dovuto rendere libera la sua creatura, solo cosi non l’avrebbe persa come accadde quella notte con la moglie, per troppo tempo vittima delle sue briglie e che decise di cavalcare haimè verso quel bosco pur di 
riprendersi la sua libertà.

lunedì 5 ottobre 2015

NARRARE LA SARDEGNA - "La vecchia del bisso"



A cura di: Elisa Casu



                                LA VECCHIA DEL BISSO


Le dita della vecchia, lavoravano con attenta pazienza, intorno alla piccola matassa del sottile e prezioso filo di bisso di mare, i cui riflessi d’oro luccicavano quella mattina nella spiaggia dove la donna sedeva nella vecchia sedia di paglia sotto la piccola tettoia di canne. A tratti la vecchia si fermava, sollevava il capo e si perdeva nell’infinito azzurro del mare, respirandone il profumo oleoso della salsedine mista agli odori acri dei residui della pesca della notte appena trascorsa.

Poi sospirando chinava ancora il capo e con la pinzetta riprendeva il fine e filamento dorato portandone avanti la cordatura
A volte disturbata da un leggero maestrale che si divertiva a buttarle, come un ragazzaccio dispettoso, qualche granello di sabbia sull’immensità dei suoi occhi azzurri.

«Bonamanzanada, Tia Lughia» (buongiorno Lucia), la scosse una voce alle spalle

«Ohia, m’asa asciucconadu» (Mi hai spaventato).

«Ell’e pruite?» (Perché?)


Era Juanne, l’amico di tia Lughia, che abitava ormai da alcuni anni accanto alla casetta sul mare della donnina. Non si conosceva niente del suo passato, diceva di giungere dalle montagne dell’interno. Ma Il sole e il mare avevano però ben presto solcato il suo volto, rendendolo simile a quello di un vecchio pescatore. Diceva alla donna di non conoscere il mare, eppure il mare stesso li faceva ritrovare ogni giorno sulla sua riva, seduti su due vecchie panche, così insieme salutavano il sorgere del sole all’orizzonte dell’alba, e osservavano la luna che brilla nel cielo subito dopo il tramonto. 


Juanne quella mattina salutò in fretta la donna, mentre poggiava sul tavolo consumato dalla salsedine “unu canestrheddu” (cestino di giunco) colmo di fichi bianchi.


La donna rimasta nuovamente da sola depose finalmente il bisso, la lente e la pinzetta sul suo cestino da lavoro e affondò ben volentieri i suoi pochi denti sulla polpa granulosa e dolce del frutto. Mentre prendeva un altro fico, giunsero però in spiaggia una coppia di mezza età che la guardava con curiosità:


«Vosthe est sa mastra femina de su bissu» (Voi siete l’esperta del bisso di mare? )


«Eja ell’e pruite» ? (Si, perchè ?).


Nostra figlia si deve sposare e vorremmo che ricamasse un asciugamano di lino per il suo corredo da sposa.


La vecchietta, passandosi le dita tra le labbra per togliere gli ultimi granellini dei fichi, li guardò con attenzione.


“Voglio conoscere la futura sposa”, esordi.


“Ma perché? La pagheremo bene, la ragazza non sta bene, quindi siamo venuti noi” rispose quasi infastidita la donna.


“La voglio conoscere, altrimenti cercatevi un'altra tessitrice” ribadì decisa .


I due si guardarono meravigliati, come se avessero di fronte una vecchia pazza, e il marito tolse la moglie dall’imbarazzo dicendole «andiamo dai cara vorrà dire che verrà Alice da lei».


Al mattino del giorno dopo, le due donne, la vecchia e la futura sposina si ritrovarono sotto la tettoia della casa della vecchia.


La ragazza mostrava uno sguardo intimorito da cerbiatta, entrambe sedettero una di fronte all’altra, mentre il mare con il suo ondeggiare sereno faceva da sottofondo alla loro chiacchierata.


La vecchietta porse subito un telo alla ragazza, su cui brillavano dei preziosi ricami fatti con la seta d’oro del mare, si trattava di un sole, una stella e della luna.


Vedi cara, disse la vecchina questi sono simboli di eternità, così come eterno è l’amore che ti lega al tuo sposo. Prezioso è il bisso con cui li ricamo, dono del nostro amico mare, perché prezioso è il sentimento del tuo cuore verso il tuo amato. Ora scegli quali di questi simboli vuoi che io ricami sul tuo prezioso telo del corredo. E così dicendo guardo a fondo il viso della ragazza.


Alice abbassò presto lo sguardo, depose il telo nella cesta da lavoro posta sul tavolo, e silenziosa osservava il mare.


La vecchia accompagnò il suo silenzio e riprese un altro ricamo che aveva già iniziato.


Dopo alcuni attimi la ragazza sempre con lo sguardo rivolto sul mare chiese alla nonnina.


«Tu credi all’amore eterno»?


E prima che la nonnina rispondesse buttò lo sguardo incuriosito su una vecchia bottiglia con dentro una pergamena ingiallita dal sole.


«Ma nonnina, questa è tua? Chiese»


«Si cara..»


«Ma è vecchia»?


«Ahahahah avrà più o meno 70 anni. E’ la mia promessa d’amore», sospirò la donna. «Quando avevo la tua età venivo spesso qui per accompagnare la mia mamma, e insieme osservavamo due giovani pescatori che sul loro gozzetto si allontanavano dalla riva per pescare il bisso di mare. I corpi abbronzati, resi lucenti dalla salsedine del mare li rendevano ai miei occhi due divinità. Mi innamorai del più giovane, uno sguardo e un bacio rubato sotto il chiarore della luna ci unì per sempre».


«E poi? cosa accadde?» chiese entusiasta la ragazza, mostrando finalmente il rossore delle sue giovani gote.


«Accadde che non lo rividi più, partì col papà, non ci salutammo ma tra gli scogli trovai questa bottiglia con dentro un messaggio»:


“Cara Lughia cantu mannu est su mare, gai est mannu s’amore meu pro a tie. Mancari t’appo acciappare a norant’annos a tando appo a t’aisettare”.


Ah, esclamo la ragazza portandosi le mani alla bocca! (Cara Lucia, quanto grande è il mare, così lo è il mio amore per te! Dovessi aspettare fino ai tuoi 90 io ti aspetterò).


«Nonnina quanti anni hai»? Chiese la fanciulla.


«90 la prossima settimana». Rispose serena la vecchia.


In quel momento arrivò dal retro della casetta il garzone del pane, un bel giovine.


«Signora posso? Ho portato il pane», chiese educatamente il ragazzo.


«Prego entra » rispose la vecchina.


I due ragazzi s’incontrarono con gli sguardi carichi di imbarazzo, entrambi arrossirono, e si udì a malapena un ciao sibilato.


La donna capi, guardò la ragazza le sorrise e tenendole strette le mani fra le sue le disse con dolcezza «Se hai qualcosa di prezioso nel cuore ritornerai.. »


La ragazza osservava ora il ragazzo con tristezza ma con una certezza nuova nel cuore e fuggì via come una gazzella.

Il giorno del suo novantesimo compleanno la vecchia tirò fuori dall’armadio in radica bianca un prezioso scialle color argento, si guardò allo specchio mentre lo poggiava delicatamente sulle piccole spalle dolcemente ricurve. Raccolse in un morbido chignon i suoi lunghi capelli bianchi e all’imbrunire raggiunse la piccola scogliera vicino alla sua casetta, dove 70 anni fa aveva ritrovato la sua promessa d’amore che emozionata stringeva fra le mani. Il mare quella sera mostrava un po’ di agitazione, buttando fra i piedi nudi della vecchia abbondante e fresca schiuma bianca.

La donna chiuse gli occhi e inspirò profondamente, aspettò che il mare entrasse in lei, con i suoi profumi, la delicatezza e la sua impetuosità.
E mentre concentrata si perdeva nell’immensa distesa d’acqua, senti una mano rugosa cingerla alle spalle.
La donna riapri gli occhi, sorrise e disse.
«Sei arrivato finalmente, hai mantenuto la promessa».
L’uomo taceva, ma sentiva il pulsare del suo cuore in ogni parte delle sue membra.
La donna finalmente si voltò e rise, risero tanto, tutti e due perché capirono che in fin dei conti non si erano mai persi, lei e Juanne infatti si erano ritrovati già da qualche anno. Il loro amico mare li aveva fatti rincontrare dando loro appuntamento ogni giorno al mattino al saluto del sorgere del sole e alla sera per dare il benvenuto al nuovo chiarore di ogni luna, mantenendo cosi la sua dolce promessa di eternità.

domenica 30 agosto 2015

Un racconto dedicato a........


CURA DI Elisa Casu



LA CACCIA




" Dedico questo racconto agli amici cacciatori sardi, non riesco a immaginare un banchetto sardo senza almeno un piatto di carne di cinghiale al sugo,,, poi ognuno di noi è libero di dare un giudizio morale sulla caccia, ma io la penso come tiu Bantine..."
(Elisa).



Il maestrale bussò presto al vecchio portone in legno di Tiu Bantine che mentre sollevava la testa dal piatto di minestrone freddo sorrise, ringraziando il vento ma dicendole fra se che era sveglio ormai da un bel po’. L’uomo passò il tovagliolo verde sui baffi bianchi dopo aver bevuto una tazza di vino rosso, della sua vigna.

Si alzò da tavola, sopra il grosso maglione di lana a dolce vita mise il gilet, infilò la cartucciera si diresse verso la vecchia cassapanca e con delicatezza lo tolse fuori: era il suo fucile da caccia. Piegò e poggiò da una parte il panno in velluto rosso che lo avvolgeva. Aprì la doppietta e controllò ancora una volta che la canna fosse pulita. Lo aveva già fatto la sera prima ma un po per scaramanzia un po per prudenza preferiva assicurarsi che tutto fosse a posto. Prese con entrambe le mani la robusta tracolla in pelle e mise il fucile in spalla. Andò verso l’uscita prese sa ciccia (il capello tipico dei pastori sardi) e la indossò, a destra dell’ architrave della porta era appeso un vecchio Crocifisso, alzò sa ciccia in segno di saluto, sospirò ed uscì. 
Era un oretta circa prima dell’alba, quando aprì il cancello, i cani scodinzolarono felici ed eccitati mentre sentivano già nel muso l’odore acre del cinghiale, desiderosi soprattutto di non deludere il loro padrone.
Gli scarponi di tiu Bantine rompevano il silenzio dell’alba, svoltato il vicolo del paese, a fianco della Chiesa patronale si incontrò con i compari, pronti anch’essi per la battuta di caccia. 
Salute compare!, si salutarono a bassa voce per non svegliare il paese ancora immerso nel sonno, e in processione sfilarono con le canne dei fucili rivolte verso il cielo ancora stellato con la luna che li seguiva, ma ormai pronto a lasciare il posto al primo chiarore dell’alba.
Compare Nino, andava avanti in disparte perso nei suoi pensieri, talmente distratto che inciampò nella soglia della casa del sacerdote. 
“Eh cosa vuoi la benedizione prima della caccia ?”, scherzò Pizzentinu, il più giovane del gruppo, nipote di compare Matteu, un altro cacciatore della grande compagnia . Ma il ragazzo non fece in tempo a finire la frase che le arrivò un sonoro scapaccione dalla grossa mano dello zio che gli fece volare in alto la ciccia di velluto marrone . 

“Non bestemmiare , porta rispetto!”Rimproverò lo zio al nipote. 

Ancora compare Nino mostrava di apparire troppo distratto. Tiu Bantine che lo conosceva bene, lo prese in disparte e passatogli il braccio intorno alle spalle chiese a bassa voce : “Cosa c è compare ?”
“Eh ..Raffaellina, compà, lo sapete non vuole che vada a caccia, manca poco alla nascita del bambino e ha paura .” Rispose compare Nino.

“Pregamus chi andet tottu ene, per deu,”( preghiamo Dio che vada tutto per il meglio)! Esclamò rincuorandolo Tiu Bantine.

Avevano intanto preso la pittiriaca (viottolo di campagna), all’uscita del paese iniziava così la strada sassosa e li si erano appoggiati al muretto a secco sos battidores (i battitori), una truma (gruppo) di almeno 15 ragazzini con matracche, tamburi e fischietti.

Si salutarono e iniziarono la discesa scoscesa, i cani a malapena si tenevano, ansimavano pronti a scovare la bestia. A fatica i compari riuscivano a tenerli rischiando più volte di scivolare lungo la discesa della collina impervia. Finalmente arrivarono all’imboccatura della valle .


Chiuse le bocche ora parlavano solo i rumori degli scarponi dei cacciatori sui sassi, che ben presto si sistemarono dietro piccoli cespugli di mirto, ciascuno nella sua posta. A valle i battitori con fischietti, legni e battito di mani pensavano bene di iniziare un chiassoso concerto di rumori per scovare i cinghiali, i cani sciolti correvano e abbaiavano annusando il terreno, eccitati e desiderosi di accontentare i loro padroni a portare a buon fine la battuta di caccia, con le narici umide immerse nella fragranza del mirto e del corbezzolo in fiore che riempiva tutta la campagna.
Mentre il gruppo di caccia iniziava la battuta e si sentivano i primi guaiti e i primi spari, il rito ancestrale della caccia si perpetuava anche quel mattino: la lotta fra l’uomo e l’animale, fra la vita e la morte! Contemporaneamente però in paese a casa del cacciatore, compare Nino iniziavano invece i gemiti: erano le doglie della giovane moglie, la nuova vita desiderosa ormai di nascere!

Le donne di casa si preoccuparono subito di mandare il figlio più grande a casa dell’ostetrica (sa mastra e partu).
Mentre compare Nino mirava e sparava al cinghiale, la moglie aiutata dall’ostetrica prendeva un forte boccata d’aria per dare le ultime spinte.
Gli spari rimbombavano nella valle, accompagnati dalle imprecazioni nervose dei cacciatori e dai latrati dei cani, anche loro madidi di sudore e desiderosi di guidare le bestie nella direzione dei loro padroni fermi nelle poste col fucile carico pronti a sparare al primo cinghiale che fosse venuto a tiro.
In paese intanto, nel letto matrimoniale in ferro battuto, la puerpera con la fronte rigata dal sudore cacciava fuori tutta la sua forza per guidare verso la luce la nuova creatura: panni, acqua calda, forbici tutto era pronto per accogliere alla vita il nuovo nascituro.
I compari intanto dopo una lunga mattinata, stanchi e contenti portavano le bestie come trofei in paese, svoltavano l’ultima curva prima di arrivare in biddha ( paese).
Arrivarono di fronte alla casa di compare Nino dove svelta gli andò incontro la mamma: “Curre, curre, chi bat bisonzu de a tie”(corri , corri, c è bisogno di te).
L’uomo d’impulso si mise a correre, Tiu Bantine ridendo gli disse: “Bogandinde assumancu su fusile, o lu cheres già cazziadore custu pizzinneddu”! (Deponi almeno il fucile o lo vuoi già iniziare alla caccia questo bimbo).
I compari risero. Compare Nino si levò dalla spalla il fucile e lo consegnò con calma a compare Bantine e lesto come una lepre entrò in casa.
I compari sistemate le bestie nel retro della casa dove i vecchi erano pronti per l’usciatura e allo svuotamento dalle viscere, si ritirarono e sistemarono cartucciere e fucili, e si diedero appuntamento sotto casa di compare Nino.


Era ormai il tramonto, la luce tenue illuminava la stanza al primo piano della puerpera, giù in strada i compari di caccia in cerchio, con il bicchiere di vino in mano salutavano la nuova vita. Il vino rendeva allegri e dava l’ispirazione giusta per intonare qualche Trallalera (versi in sardo), dove compare Nino veniva preso bonariamente in giro.
Al piano di su il bambino succhiava beato dal seno della mamma, e nella casa accanto la carne di cinghiale la si stava lavorando alla meglio.
Dopo una settimana il bambino vene battezzato, e venne preparato per l’indomani un pranzo a base di carne di cinghiale e vino rosso dove si brindò ancora alla nascita del figlio di compare Nino, e anche alla buona riuscita della caccia.

In fin dei conti pensava Tiu Bantine mentre la sera, un po barcollante e felice rientrava a casa: “Sa vida est gai, unu giru inue sa vida si leat a brazzu cun sa morte. Sa cazzia che furat unu bicculu a mama Terra , ma sa vida andat adaenanti cun naschidas e mortes, già no semus poi nois cazziadores sos malos !” (La vita è cosi: un cerchio dove la vita e la morte si prendono a braccetto. La caccia che ruba alla natura un po’ di se, e la vita che continua il suo corso col miracolo della nascita, in fondo non siamo noi cacciatori i cattivi!) Pensava entrando nell’uscio di casa Tiu Bantine, che salutando con la ciccia in mano fece un simpatico occhiolino al vecchio Crocifisso, aggiungendo: “Tue mi cumprendese beru”! (Tu mi capisci vero?)



lunedì 29 dicembre 2014

Il signore, il segretario, la locandiera.


A CURA DI : Mario Grimaldi


    A volte la storia che cerchiamo di raccontare, sulla base di fatti sentiti durante l’infanzia dai nostri vecchi, oppure letti chi sa dove, sprigiona la nostra fantasia, mossa dalla voglia dell’immaginare il come, tantissimi anni fa, si svolgeva ed evolveva la vita dei nostri predecessori. Ed ecco che la mente elabora quelle che io chiamo “Fantasie storiche” (anche se il tutto parrebbe una chiara antitesi: se fantasia è non può esser storia!) utili però per farci sognare e viaggiare, a ritroso nel tempo. Come tale, dunque dobbiamo accettare quanto sto per raccontare: un aneddoto recuperato da chi sa quale racconto o lettura appresi durante l’infanzia e gelosamente conservati nella cantina dei ricordi.... 
    Non so, forse intorno al 1800 Porto Torres era una cittadina portuale ricca di traffici. Pelli, tabacco, legname e molte altre mercanzie costituivano il traffico ogni giorno. Navi che scaricavano merci e navi che ne imbarcavano altre. Dall’alto i Gabbiani assistevano al benessere di gente impegnata in attività commerciali di ogni genere. I cavalli aspettavano fuori dalla “banca”, fuori dalle taverne, fuori dalle officine dove, uomini e donne, si scambiavano mercanzie, soldi e di certo “ALTRO”. In sella a due maestosi cavalli, un gentiluomo sassarese accompagnato dal suo segretario (che altri non era che un figlio del popolo con il quale il nobile, fin dall’infanzia aveva trascorso, in grande amicizia., la sua vita < questo però non era bastato a modificare i modi popolani del fraterno amico un po bifolco>), provenienti da Sassari fecero ingresso nella cittadina turritana ivi spinti per concludere alcuni affari. La strada principale, in quel sabato mattina, era gremita dalle persone più diverse: bambini sudici giocavano nei numerosi guazzi d’acqua piovana ai bordi della strada; beghine dalle lunghe gonne nere si muovevano quasi in processione verso la chiesa; mentre eleganti uomini d’affari, come formiche bianche su un campo bruciato, si distinguevano tra una moltitudine di persone abbigliate con semplicità. I nostri amici, poichè si appropinquava l’ora di colazione, notando verso la fine della strada una familiare insegna di una taverna, reputarono opportuno rifocillarsi dopo la loro lunga cavalcata, prima di compiere il loro doveroso onere per il quale erano giunti in città. Appena sceso di sella, il gentiluomo fu attratto da una donna bionda e dall’aspetto matronale che, armata di ombrellino gli era passata davanti. L’intensa fragranza del suo profumo e il sgargiante colore degli abiti aderenti che indossava risvegliarono nell’uomo una passione mai troppo sopita nonostante la sua mezza età. Vedendo che la donna gli aveva lanciato uno sguardo ammiccante, il gentiluomo non seppe trattenere il proprio ardore e, dopo un ammirato inchinino esordì, sfoggiando il suo miglior sorriso con una frase, chiaramente stereotipo di collezione: “Signora, la vostra bellezza offusca anche la più splendida rosa che sia mai stata colta”. La donna, visibilmente lusingata da quelle gentili parole, rispose abbozzando un sorriso, che subito dopo nascose dietro l’ombrellino rosa. Il tutto continuava a svolgersi sotto gli occhi del segretario, occhi che lampeggiavano di invidia mista ad imbarazzo popolano, quando ad un certo punto l’ardito e nobile dongiovanni estrasse dalla tasca, come per magia, un piccolo cofanetto di metallo e supplicò la signora di accettare in dono quel piccolo carillon. Lo strumento una volta aperto, diffuse nell’aria le dolci note del rondò della sonatina numero cinque di Muzio Clementi. Le guance della donna si venarono di rosso mentre estasiata da quella dolce musica, si portò la mano destra sul cuore. Fu allora che la procace Signora, dopo aver chiesto da chi venisse quell’omaggio e avendo appreso il nome e il titolo del gentiluomo che reputo ben adeguato alle sue buone maniere, si presentò anch‘ essa rivelando il proprio nome e la fortuita circostanza che la vedeva essere la padrona della locanda e che per tale motivo si sentiva onorata di invitare a colazione i due inaspettati nuovi amici che, più che volentieri, furono lieti accettare l’invito.
< (la signora era una piacente donna, intorno alla quarantina, il cui viso truccato con molta cura era appena percorso da qualche piccola ruga. Si seppe in seguito che la vita, in realtà, non era stata troppo tenera con Lei. A soli sedici anni, Beatrice - cosi la chiameremo con nome di fantasia - era stata mandata a servizio da un altro nobiluomo di Sassari. In realtà in quella casa, oltre ad aver assolto quotidianamente i doveri di una donna di servizio, aveva anche condiviso i piaceri del talamo con il suo datore di lavoro e l’affezione si era poi trasformata in amore, tanto che sul punto di morte il suo padrone l’aveva sposata lasciandola erede di ogni suo bene. Solo allora, un fratellastro della signora, un uomo che svolgeva una vita poco cristallina dal punto di vista della legalità, si ricordò di lei e così, nelle rare occasioni in cui le faceva visita, non perdeva tempo per vessarla e e spillarle ingenti somme di denaro. Ora la vedova divenuta nel frattempo padrona di quella locanda, godeva di una certa tranquillità economica, che solo a causa del congiunto non consanguineo non poteva definirsi vera agiatezza)>.Limitandomi a quanto riportato e non volendo entrare in particolari poco convenienti, mi preme dire che quello di quel giorno, in quel di Porto Torres, fu un incontro importante per i nostri personaggi: L’astuto gentiluomo tenne per se come amante la bella signora (dopo averla indotta a vendere la locanda) e la condusse a Sassari dove abito per molti anni, da allora, in qualità di moglie, fedele sposa, del suo fraterno amico e segretario. Dei nostri ignoti protagonisti di questo aneddoto che possiamo definire “Una fantasia storica” che ci accompagna in questi ultimi giorni dell’anno 2014, sicuramente non si vuole ricercare ne una morale ne una moralità per allora improbabile, ma corre l’obbligo di dire che, una volta estintasi la nobile famiglia sassarese alla quale apparteneva il nostro gentiluomo, continuano ad usufruire di tutti i suoi beni di sempre i figli che la bella signora seppe dare a lui e al suo segretario.. Purtroppo non furono in grado di acquisire il casato e fregiarsi del titolo, ma constà che, ancora al giorno d’oggi, i loro discendenti, invisibili e sconosciuti al mondo dei nobili, siano abbastanza ricchi e rispettati ma anche ignari delle loro origini e inconsapevoli che quanto tutto di loro pertinenza gli sia stato donato da una bella e generosa locandiera.
  • Mario Grimaldi.





domenica 28 settembre 2014

LI "BOTTI" : (le scarpe lusso per signori)



ANEDDOTI, RCORDI E STORIE DELLA SASSARI DI ALLORA. 


Un signore che è morto verso la fine degli anni 60 alla venerabilissima età di 98 anni, (contadino e ortolano che abitava nelle campagne di Logulentu e riforniva molte famiglie sassaresi dei frutti del suo lavoro, nelle campagne si muoveva ancora con un carrettino trainato da buoi mentre, quando si recava a Sassari utilizzava come traino un cavallino, più brocco che altro - che si chiamava "Pindagliu" - per il trasporto delle merci da vendere) ,RICORDO che spesso mi raccontava l modi di vivere durante la sua fanciullezza. In particolare mi ritorna in mente un suo racconto che verteva sul "lusso" che rappresentava il fatto di possedere un paio di scarpe."Eravamo felici, DICEVA, anche se camminavamo ancora scalzi sino all'età di quindici o sedici anni. Nè costituiva motivo d'invidia il fatto che qualcuno più fortunato degli altri calzasse le scarpe anche prima.Molti giovani mettevano per la prima volta le scarpe in occasione del servizio militare , E PER POTERLE CALZARE C'ERA BISOGNO DI UN ADEGUATO ... <TIROCINIO>, durante il quale si provvedeva anche all'eliminazione dei calli della pianta del piede. Le donne anche da adulte, accudivano alle faccende domestiche quasi sempre scalze, come anche quando andavano a prender acqua alla fonte, Soltanto quando c'era da percorrere lunghe distanze e su terreni scoscesi o pietrosi mettevano vecchi calzari. A quindici o sedici anni, dunque cominciavamo a calzare le scarpe e con esse ad indossare i pantaloni lunghi e ad usare la cintura al posto delle bretelle; la cintura, peraltro, era il segno distintivo di raggiunta maturità. Ci sentivamo oramai degli ometti e i giochi dell'infanzia diventavano dei piacevoli ricordi mentre si cominciava ad intraprendere la via dei campi, degli orti, delle vigne e... quindi del lavoro. Una volta indossati i calzoni lunghi, eravamo autorizzati a portare anche la rasoggia (coltello) da utilizzare come indispensabile arnese da lavoro, un arnese plurivalente senza il quale ci si sentiva inermi e inutili. La maggior parte dei ragazzi crescevamo e lavoravamo pensando al matrimonio e quindi ad accasarci e creare una famiglia (per molti di noi il giorno del matrimonio era anche la prima esperienza sessuale); l'uomo che non si sposava era guardato con diffidenza e ritenuto non meritevole di considerazione. .... Ma queste sono altre storie, borbottava nel concludere Zio Salvatorico"" e dandomi un colpetto sulla spalla mi salutava e risaliva faticosamente sul suo carretto per continuare il suo gravoso impegno della distribuzione degli ortaggi, dell'olio della frutta e di tutto quel ben di Dio che costituiva il carico di quell'affascinante mezzo di trasporto.