venerdì 9 ottobre 2015

Sassari e il suo passato




A cura di:  Paolo Grindi
Consiglio agli amici di Sassari Storia di leggerlo, è un pochino lunghetto ma ne vale la pena. Naturalmente non è farina del mio sacco (ho fatto alcuni aggiustamenti, per essere più fluida la lettura), è una bella e caratteristica descrizione della nostra Sassari del XIII sec. del nostro concittadino Enrico Costa.
“Visitando l’attuale rione di Sant’Apollinare, si può ben farsi un’idea dell’antico villaggio di Sassari. Esso consisteva in diversi piccoli gruppi di misere casette mal costruite , messe là alla rinfusa, senza ordine, sopra un terreno accidentale, formanti una piazzetta rettangolare che ha conservato fino ad oggi il battesimo di “Pozzu di bidda”, come lo aveva al tempo remotissimo.

A cominciare dal secolo XIII, la città era chiusa da una cinta muraria con quattro porte di uscita, le quali si aprivano all’alba e si chiudevano all’Ave Maria; le porte erano: del Castello, di Durusele, Sant’Antonio e Utzeri.

La topografia interna non aveva nulla di speciale: un vero labirinto di viuzze anguste, irregolari, sporche per la mancanza di canali di spurgo; le quali vie serpeggiavano in tutti i sensi fra gruppi e gruppetti di casette di meschina apparenza, unite spesso con archetti di sostegno, o addossate l’una all’altra, come pecorelle paurose e tremanti per freddo. Da questi meschini caseggiati spuntava una mezza dozzina di chiesette e parecchi oratori, fra i quali primeggiava la parrocchia di San Nicola, che più tardi doveva ergersi all’onore di Cattedrale. Gli edifici più distinti erano allora i due destinati a sede del Consiglio Comunale, e a stanza dei rappresentanti l’autorità governativa.
Era questa l’antichissima Sassari, che al principio del secolo XIV doveva prendere una fisionomia più spiccata e caratteristica, sia per i bassi e irregolari porticati che fiancheggiavano la via maestra, sia per i ballatoi di legno che adornavano le case signorili – delizia delle donne, che in quei tempi facevano vita casalinga, non uscendo di casa che per andare a messa, o in campagna.
All’interno della città la popolazione viveva nelle strettoie e respirava a disagio. Questa cinta di pietra non voleva allargarsi. Come crescevano le famiglie, così crescevano in altezza le misere casette, quasi in cerca d’aria e di luce.

Guai ai cittadini, se non avessero avuto uno sfogo quotidiano negli orti, vigne ed ameni giardini che circondavano l’abitato. Guai alle famiglie, se di tanto in tanto una peste provvidenziale non fosse venuta a decimarle. Pareva che la metà della popolazione si affrettasse a morire, per lasciare vivere più comodamente l’altra metà.  
Eppure, in quei bugigattoli, abitava nel secolo XIV una popolazione fiera, saggia, patriottica, che teneva alla gloria degli avi; una popolazione che sfidava qualunque pericolo, insofferente di ogni servitù; sempre pronta ad insorgere quando si credeva lesa nel proprio diritto, e pronta ugualmente a menar le mani quando la si invitava a prendere le armi per assalire la rocca di qualche prepotente di casa Doria. 
I nostri padri della patria, così fieri e tenaci della dignità del proprio paese, erano parimenti smaniosi di mettere le parrucche e di vestire le rosse toghe di damasco, per accompagnare i Candelieri alla chiesa di S, Maria, o per recarsi in pompa magna alla basilica di Porto Torres, col santissimo scopo di cenare lautamente a spese del Comune ed a gloria dei beatissimi Martiri Turritani.

Dentro quel guscio di noce, cerchiato di muraglie, ferveva la vita cittadina sassarese. Ma, quale era questa vita? Innanzitutto la smania delle gite in campagna a maggio e nell’ottobre, al tempo del raccolto; ogni domenica le passeggiate fuori la porta, in cerca di fresco e di sole; ogni tanto le processioni in onore a tutti i Santi del calendario; due tratti di corda ad un ladruncolo nello spigolo della casa comunale; le bastonate ad un malvivente dinanzi alle carceri di San Leonardo; i fuochi d’artificio sul colle dei Cappuccini; la corsa dei cavalli in “piazza” parecchie volte l’anno; un po’ di rogo nella “Carra Grande” per ordine dell’Inquisizione in nome di Dio; le staffilate a sangue sui banchi delle scuole, in nome della scienza; gli spettacoli della forca e lol squartamento dei cadaveri, in nome del Re.
La voce dei bronzi teneva desti i cittadini: la campana di Città che suonava il “ritiro”; le campane delle chiese che chiamava i devoti alle sacre funzioni; il campanone del castello, che annunziava l’agonia di un condannato a morte. 
Ed in mezzo a questa vita paurosa e ricca di emozioni, non mancavano mai le “gobbule” taglienti, le mascherate allusive, le burlette spiritose – poiché su tutto e su tutti predominò sempre nella popolazione sassarese quella nota satirica ed umoristica, che è nella sua indole e nel suo carattere. 
Parliamo ora dell’uomo e l’architettura. I severi costumi dei cittadini sassaresi, durante il periodo del regime libero (tra il secolo XIII e il XIV) rispondevano allo stile di quell’epoca: all’architettura pisana, caratteristica della sobrietà, semplicità e eleganza della linea e degli ornamenti. E’ così mantenne, con poche varianti, nei secoli successivi. Ma col secolo XVII le pure linee dello stile pisano cedettero il posto allo stile di un rinascimento barocco, gonfio e pesante. A questo stile rispecchiò fedelmente il carattere dell’uomo di quei tempi. I tozzi capitelli, le sovraccariche facciate delle chiese, le targhette a cartoccio, le decorazioni complicate, rispondevano alle smisurate parrucche, alle pompose toghe rabescate, alle guarnizioni di pizzo, alle trine d’oro, agli sbuffi, ai fiocchi, ai merletti, alle fibbie, ai ciondoli ed a simili cianfrusaglie. La pompa delle forme esteriori, i cerimoniali stucchevoli, le pose plastiche, le mosse leziose, mascheravano la povertà dello spirito e la miseria della sostanza. Tutto era etichetta, artifizio, teatralità. Teatralità nelle sedute del Consiglio Comunale; teatralità nella rappresentazione del “Discendimento in chiesa”, Teatralità nelle processioni religiose, teatralità nel preparare lo spettacolo della forca. Il Santo Ufficio e il Regio Magistrato regnavano col terrore dell’apparato scenico, il quale impressionava profondamente le masse bigotte e ignoranti. L’architettura rispecchiava fedelmente gli uomini.
Il Governo di Casa Savoia seguì in Sardegna, per lungo tempo, le orme del Governo spagnolo e ciò fino a Carlo Felice, il primo Re Sabaudo che si decise a smettere la parrucca. E fu appunto sotto il regno di costui (verso il 1825) che l’architettura degli edifici sassaresi entrò in una fase più geniale, per perfezionarsi in seguito, quando la marsina e l’abito a coda di rondine annunziarono al mondo il principio di una nuova civiltà. Ed anche questa civiltà ha forse descritto la sua parabola con la nuova Italia, per dar luogo a quello stile “Liberty”, che rappresentava l’uomo dell’ultimo periodo in tutte le sue manifestazioni. Gli edifici, come l’uomo, hanno cambiato carattere. Purtroppo però l’uomo di Sassari negli anni 70/80 ha cambiato nuovamente carattere, iniziando l’abbattimento di molte anzi moltissime ville ed edifici Liberty per costruire uffici, banche e grandi condomini, ma questa è un’altra storia".




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Sassari: nascita del dialetto???








A CURA DI:  Marilena Ticca



Nascita della lingua sassarese???
Gavino Marongio (Letterato - Sassari sec.XIV?, sec. XV - ).
Alla fine di alcuni commenti a una gran raccolta di poesie di soggetto storico, da lui curata, nel 1414 il sassarese M. " Gaini de Marongio" così scriveva: < Tute cheste cose ho iscritto yo secondo lo sentimento de li supra scritti sonetti e canzoni di li diti poeti secomo presenti a tute cossi le dete guerre, e altre cose che se feceno eciam secondo le storie e carte che videro potere chiaramente cho fato in la dita citade de Sassari>. QUESTA LETTERA, - che pare scritta in dialetto sassarese italianizzato> viene ciata da E. Costa a dimostrazione - contro un'affermazione di Vittorio Angius - che la lingua sassarese non è nata dopo la peste del 1477 e 1528 <per i corsi venuti a ripopolare la nostra città deserta>, ma si parlava già nel 1414.
(m.t.)