mercoledì 16 dicembre 2015

Gegia e il Natale - di Elisa Casu




A cura di  -  Elisa Casu 


Gegia e il Natale
                       


“Eh tiu Michelinu, tiu Michelinu”, sospirava preoccupato il medico condotto del paese mentre osservava la colonnina di mercurio che si fermava sempre troppo in alto misurando una pressione arteriosa non proprio bassa. Si tolse cosi il fonendoscopio dalle orecchie e serio in volto guardava prima il vecchio e poi la moglie, Tia Buciana. L’uomo al contrario del dottore appariva rilassato, anzi contento tra un singhiozzo e l’altro, traccia del suo cannonau preferito, quello regalatogli da compare Attiliu. Tia Buciana se lo guardava a labbra serrate e occhi chiusi, quasi grugnendo e premendo le flaccide e bianche braccia sui corposi fianchi sibilò:“Micheli’ una cosa ti naro o lassasa sa tazza o a Natale abberimusu prima a Gegia e a daboi a tie” ( Bada a te, ti dico di stare attento, lascia il vino, altrimenti a Natale ammazziamo te e la scrofa). E cosi dicendo voltava le spalle al vecchio sdraiato ancora con gli scarponi sopra il copriletto matrimoniale , riprendendo a impastare il pane sopra la mesa ( tavolo) in cucina.

Insomma da quel giorno i destini di Tiu Michelinu e della scrofa di casa, Gegia per l’appunto rischiavano seriamente di incrociarsi.
Si avvicinava ormai il Natale e l’attenzione verso la povera Gegia cresceva sempre di più, le razioni del mangiare aumentavano e lei mentre Tia Buciana rovesciava le bucce di patate e gli avanzi di carne dal secchio, arricciava contenta il suo codino rosa, convinta dei buoni sentimenti dei suoi padroni verso di lei. Dalla visita del dottore Tiu Michelinu si era impegnato, sotto giuramento, a sollevare meno bicchierini di vino verso la bocca. Tia Buciana iniziava a essere soddisfatta di lui, a volte gli faceva tenerezza. Lo osservava mentre andava a trovare Gegia, all’inizio un po’ moscio, ma poi osservava con soddisfazione che l’uomo ogni volta che tornava dalla porcilaia era sempre più contento, anche il colorito del viso era sempre più acceso e tia Buciana iniziava a mettere da parte i suoi sensi di colpa.
L’affetto di tiu Michelinu per Gegia cresceva a tal punto che una notte non torno’ proprio dalla visita al maiale. Tia Bucina rigirandosi nel letto si accorse del cuscino vuoto di Tiu Michelinu e spaventata usci fuori in vestaglia.
“Sant’Antoni meu, eh itte è suzzessu, coro meu!”( Cuore mio, cosa è accaduto?) e gridava: “ Micheli. Micheli” ma niente, silenzio assoluto. 
Col forcone in mano si decise a raggiungere Gegia, e cosa vide quando entrò nel fienile sotto la tettoia della porcilaia: Gegia addormentata beatamente e a fianco a lei Tiu Michelinu bello rilassato con a fianco un piccolo fiasco di vino. Non vi voglio annoiare nel descrivervi i particolari della scena che ne segui, sappiate solo che dalla casa si intravedevano sotto il chiarore della luna Tia Buciana col forcone che inseguiva un Tiu Michelinu che provava, senza riuscirci a fuggire dalla moglie.
Arrivò il giorno della festa di Gegia, Tia Buciana diede a Tiu Michelinu e compare Attilio il piatto in ferro smaltato bianco e i coltelli per dare il ben servito alla povera Gegia. Tiu Michelinu sospirava ma l’idea di una buona salsiccia al finocchietto selvatico e del gustoso pane untinadu sembrava lo tirassero su di morale anche se ormai era diventato un grande amico di Gegia.
Il giorno di Natale, l’uomo e la sua famiglia apprezzarono la croccante carne di maiale e il profumo faceva sostare i cani fuori dalla porta speranzosi di mangiare anche loro dal lauto banchetto.
Tia Buciana si guardò il marito e pensò: però meno male fit dippiaghidu pro Gegia ( meno male era dispiaciuto per Gegia), e sorrise guardando i pochi denti di Tiu Michelinu che affondavano nella cotenna croccante del maiale arrosto.
GEGIA
Dopo Natale ogni giorno Tiu Michelinu andava a trovare compare Attiliu, sotto l’occhio vigile di Tia Buciana. E appariva contento, e contenta era anche la scrofa di tiu Attiliu che arricciava il codino ogni volta che lo vedeva. Tiu Michelinu aveva il permesso di compare Attiliu, di occuparsi della scrofa, anche perché in realtà Tiu Michelinu l’aveva pagata a suon di soldoni (di nascosto) a Tia Buciana, o meglio aveva comprato la scrofa di Compare, Gisella passandola per Gegia, che contenta aspettava ogni giorno il suo padrone. La scrofa era contenta di aver superato il Natale e Tiu Michelinu felice di poter gustare di nascosto del vino messo generosamente a disposizione da Compare Attiliu, tenuto ben nascosto dietro la porcilaia, e poter cosi brindare che il destino suo e della scrofa si fossero incontrati oltre ogni nefasta previsione.        
           

venerdì 4 dicembre 2015

LA GIOVANE AMAZZONE


A CURA DI: Elisa Casu
                                       

Narrare la Sardegna




La ragazza osservava incantata il luccichio del suo uncinetto che nervosamente infilava e sfilava tra le rade maglie della sciarpa di lana che stava ultimando, luccichio che ricordava tanto uno spiritello saltellante che stregava l’atmosfera tutto intorno al camino. Era l’unico momento di riposo che la giovane si concedeva la sera, fermando il tempo delle faccende domestiche e del lavoro sui campi, sempre inchinata a raccogliere i frutti della terra colorati dal sole e coperti dalla polvere, ormai turgidi e maturi al tatto delle sue delicate mani.
Ogni giorno al ritorno dalla campagna l’aspettava l’odiata scopa, il tinozzo con l’acqua mischiata all’aceto per disinfettare e profumare la grande stanza del casolare di campagna. Ma la casa era la sua prigione, era assai felice infatti quando stava all’aperto, anche al freddo e al gelo, poco importava. Era bramosa di respirare l’aria frizzante che arrivava dalle montagne appena innevate del Gennargentu.
Questo era il suo paradiso, una vecchia panca posta a fianco della porta di legno della casa, luogo privilegiato da cui contemplare l’immenso panorama della vallata che si apriva ai suoi occhi, che dava ad un certo punto finalmente spazio alle colline che leste si arrampicavano lasciando poi spazio alle montagne. Gli uliveti ordinati e folti lasciavano cosi posto ad irti boschi selvaggi che pareva celassero con gelosia i segreti dei loro aliti e dei gemiti di vita e di morte, consumati al riparo di un lentischio e di un cespuglio profumato di bacche di mirto. 
La ragazza osservava la montagna con desiderio, quasi vergognandosi dei suoi pensieri che si addentravano tra i sentieri e le caverne nascoste dell’enorme rilievo roccioso.
Il padre, unico affetto, con cui condivideva la sua giovane vita, era assai geloso di lei, della sua bellezza, delle labbra carnose, delle folte sopracciglia nere che incorniciavano quegli occhi vispi neri anch’essi più della pece, e desiderosi più che mai di scoprire, di fuggire.
Il paese era noto per la sagra delle castagne che immancabilmente ogni anno si ripeteva. Il frutto carnoso abbondava nelle campagne del padre della ragazza, e a giorni sarebbero arrivati gli uomini per la raccolta. Per la prima volta la ragazza pensava al loro arrivo con euforia, calore, immaginando già i loro corpi bronzei chinati a raccogliere gli spinosi frutti. In fin dei conti anche lei si sentiva un pò come quelle castagne, fuori ispida, dentro dura di carattere, ma che al calore del fuoco dell’amore avrebbe certamente donato la sua profonda dolcezza.
Il padre la rapì alla realtà: era ormai ora di pranzo, aveva fame e le mani ancora sporche e bluastre dalla raccolta delle olive. L’uomo aveva un solo desiderio lavarsi e mangiare, al tavolo che puntualmente la figlia imbandiva, stavolta con grosse fette di pane nero da inzuppare nella cremosa zuppa di ceci che ribolliva sulla pentola, sopra la brace del camino. Mentre addentava con avidità la fetta di pane, senza alzare lo sguardo si rivolse con autorità alla figlia: “ Crasa benin sos pizzinnos , preparanos s’usthu e lassalu fora , chi benzo deo a lu leare! Abbaida a tie, no bessas e no andes a caddu”! (domani verranno i ragazzi, prepara il pranzo e lasciarlo fuori dall’uscio, non uscire e non cavalcare).
La figlia, fece di si con la testa ma i pensieri seguivano un altro sentiero, e in silenzio si portò alla bocca il cucchiaio colmo della zuppa fumante. 
La gelosia del padre all’inizio la lusingava, la faceva sentire protetta e importante, ora la opprimeva. Nei mattini seduta su quella panca osservava il cielo immenso, e si perdeva a seguire i voli maestosi di un’astore , il cui nido era sicuramente fra le fessure nascoste della vetta più alta. Lo vedeva padrone di quel cieli, padrone della sua libertà. Avrebbe anche lei voluto volteggiare, librarsi nell’aria sentirsi leggera e libera. 
L’indomani i sacchi di iuta vuoti erano legati ai lati de s’imbasthu ( sella) del cavallo, la ragazza mentre buttava via l’acqua sporca dal secchio sulla canaletta a fianco del portone, osservava il padre mentre si dava la spinta sui reni per salire in sella. Amava i cavalli, ma il padre le vietava di cavalcarli, ma a volte lei lo faceva di nascosto, era diventata talmente brava che cavalcava senza sella, incurante della dolorosa tensione delle gambe nel seguire l’andatura del cavallo. Quella mattina dopo che il padre si diresse verso il bosco per raggiungere i ragazzi, lei rientrò in casa, si bagnò il viso con acqua profumata ai petali di rosa, si passò le mani lungo il collo raggiungendo l’insenatura dei suoi caldi seni. Si sentiva rinfrescata, profumata, si sentiva viva! Indossò il completo da amazzone che di nascosto le aveva regalato sua zia. Davanti allo specchio chiuse il penultimo bottone della camicia nera che a malapena conteneva il bel seno. Infilò i pantaloni di velluto e la giacca di velluto, che riprendevano la stessa tonalità della camicia. Tirò le stringhe ai gambali neri, sciolse i lunghi capelli e si ammirò allo specchio. Andò nella stalla mise le redini a Bentu ( Vento) un bellissimo esemplare di anglo arabo sardo e lesta lo cavalcò. Raggiunse il sentiero impervio che portava al bosco. A quell’ora il padre aveva già dato le consegne ai ragazzi e si era diretto dall’altra parte del monte per controllare le sue capre.
La ragazza scese da cavallo con le gambe ancora tese e doloranti dal galoppo, sentiva il suo cuore battere, strinse fra le mani le redini del cavallo accarezzandone il dorso sudato. Iniziò a sentirne le voci, scostò un cespuglio di lentischio e li vide: due corpi chinati, le spalle possenti, la nuca rossastra. Sorrise, in particolare uno di loro attirò la sua attenzione. Ne osservo le spalle, e sorridendo si soffermò sulle natiche che le ricordavano tanto la polpa dura e turgida dei pomodori caldi sotto il sole di luglio. Vide le mani del ragazzo che raccoglievano i frutti spinosi dai rami più bassi, e desiderò per un lungo attimo di essere come quel frutto spinoso tra le sue mani. Il cavallo interruppe il flusso dei suoi desideri, e si impennò spaventato da una lepre che sbucò dalla sua tana. La ragazza con fatica lo tranquillizzò ma i ragazzi si accorsero di lei, la guardarono e quel ragazzo la fissò con curiosità ammirando la visione della giovane amazzone del bosco. Si mosse per andarle incontro ma lei scappò, perdendo però il suo braccialetto di cuoio intrecciato. Il ragazzo lo raccolse, lo strinse fra le mani e lo portò alla bocca sentendone il profumo di acqua di rose.
La ragazza cavalcò, si sentiva tutt’uno col cavallo, povero Bentu incitato ad una lunga corsa fino alla riva di un rio. Qui la ragazza scese da cavallo e si buttò sull’erba ormai esausta, e rise, rise rotolandosi sull’erba bagnata. Era contenta, felice, libera. A pancia in su osservò il cielo, carico quella mattina di nuvole spazzate velocemente dal vento di maestrale e lo rivide: era l’astore che volteggiava librandosi nel vento, ma stavolta non era l’unico padrone del cielo era con un altro astore, probabilmente una femmina che inseguiva in infinite girandole d’amore.
Il padre la sera al ritorno trovò come sempre la tavola imbandita, il fiasco di vino, su pane frattau e sul tagliere un bel pezzo di lardo bianco. Come sempre parlò poco, ma osservò la figlia, la vedeva diversa. Notò i capelli sciolti ne senti il profumo di rose. Ebbe paura, senti un groppo alla gola. Fermò la mano all’altezza del mento col pezzo di pane e lardo e chiuse gli occhi, l’angoscia si impadronì di lui, ricordò la stessa espressione e lo stesso profumo della moglie quella notte. Come impazzito si alzò si avvicino da lei e presala per il braccio le chiese: “ Ses andada a caddu beru?Fisthi inie?)( Hai cavalcato vero? Sei andata da loro?).
La ragazza si divincolò da quella stretta lo guardò con sfida e serrando le labbra tirò indietro con orgoglio una lacrima calda e scappò via.
L’indomani il padre andò alla stalla, ma Bentu non c’era e non c’era neanche la ragazza. Era andata a riprendere il suo bracciale, mentre cavalcava verso il bosco l’emozione di rivedere quel ragazzo riscaldava tutto il suo giovane corpo. Raggiunse il sentiero impervio del bosco, scese da cavallo fece appena in tempo a scostare il cespuglio che sentì alle spalle una calda mano cingerle i fianchi. Con l’altra mano il bel giovine avvicinò il suo viso alla sua bocca, con denti perfettamente bianchi: era il ragazzo del bosco. Mentre il padre chiamava a squarciagola la ragazza il bosco avvolse i due ragazzi nel loro segreto, celandone gli infiniti gemiti d’amore. Mentre in cielo volteggiava ora l’astore con i suoi richiami d’amore verso la sua femmina che ,dopo tanti volteggi librando nell’aria si arrese infine al suo richiamo. Il padre sentì il grido d’amore dei due rapaci, li osservò e finalmente capi che avrebbe dovuto rendere libera la sua creatura, solo cosi non l’avrebbe persa come accadde quella notte con la moglie, per troppo tempo vittima delle sue briglie e che decise di cavalcare haimè verso quel bosco pur di 
riprendersi la sua libertà.

martedì 1 dicembre 2015

Tornei caccia cavalieri





A CURA DI: Mario Grimaldi



COMPORTAMENTI.



E' vero, non solo erano molto turbolenti i cavalieri agli ordini dei feudatari o dei castellani arricchiti che avevano comperato un titolo nobiliare , ma anche molto pericolosi nelle loro scorribande: causavano alle campagne e persino ai monasteri dei gravissimi danni... Allora si cercava di distrarli appunto con questi rodei nello svolgersi dei quali potevano sfogare tutti i loro istinti guerrieri in scontri senza esclusione di colpi fra due squadre di cavalieri opposte. Il Rodeo si svolgeva in un apposito recinto sotto l'attento sguardo di esperti, che poi premiavano i migliori, ovvero quelli che restavano in vita. In un secondo tempo furo ammesse ad assistere allo "spettacolo sportivo", anche dame e damigelle vestite con i loro abiti più belli e di fiori incoronate. 
Allo stesso modo i cavalieri erano però anche , diciamo così, distratti da una altra loro grandissima passione: LA CACCIA, che si praticava con grande dispiego di cani, battitori e suono di corni. Cacciavano soprattutto il cervo, ambitissimo anche come dono a personaggi di riguardo, e il cinghiale, pericolosissimo, che costò la vita a molti nobiluomini. Senza poter poi dimenticare la silenziosa caccia col falcone ritenuta più elegante e più simile ad un' arte che non allo sfogo di "istinti violenti".
M.G.