martedì 27 ottobre 2015

Racconti: IL TAVOLO DEI MORTI

A cura di Elisa Casu

Luisigheddu si divertiva a far girare la vecchia marroccula (trottola in legno) sul tavolo di cucina, intorno alla candela che ogni volta che la vedeva roteare minacciosa sembrava la volesse schivare abbassando improvvisamente la sua calda fiamma per poi risollevarsi con orgoglio. Al vecchio orologio a pendolo appeso sopra la cappa ingrigita del camino mancavano ormai pochi minuti alle 6, e proprio al primo rintocco ecco che il bambino sentì girare la chiave nella pesante serratura della porta e come una saetta corse incontro fra le braccia stanche della mamma, che anche quel giorno aveva terminato la giornata di lavoro dai signori Matilde e suo fratello Antonio. “Mà, ma itte m as battidu oe?” (Mamma cosa mi hai portato oggi?) E cosi dicendo rovistava avidamente nella tasca del grembiule nero a fiorellini bianchi della mamma.La donna facendosi cadere pesantemente sulla sedia di paglia di fronte al camino, tolse da sotto lo scialle marrone un piccolo melograno, che illuminato dal bagliore delle fiamme nel camino mostrava il suo sorriso facendo un pò rabbrividire il bambino, in fin dei conti mancava ormai poco a sa die de sos mortos (il giorno dei morti).E mentre insieme alla mamma sgranavano il succoso frutto, con le mani rosse il bambino faceva cadere in bocca i semi di melograno e intanto chiedeva curioso quando avrebbero apparecchiato per i morti.La mamma sorrise, passandogli fra i capelli spettinati la sua mano ancora nera del lucido da scarpe che signor Antonio si ostinava a farle usare quasi ogni giorno pro sos cambales, orgoglio di una ricchezza e di uno sfarzo che ormai appartenevano già al passato.

Diaulu e presse fizzu mè, a crasa aisetta (Non aver fretta figlio mio, aspetta a domani).Signora Matilde, la signora presso la quale lavorava la donna, non si era mai sposata, nonostante fosse una gran bella donna, di lei infatti si diceva che da ragazza avesse i capelli più lunghi e lucenti fra tutte le ragazze del paese, folti e resistenti come una criniera di cavalla, e proprio come una cavalla era il suo carattere che nessun cavaliere riuscì mai a domare. Si parlava però di un soldato che durante la guerra si innamorò di lei, giurandole eterno amore e chiedendola in sposa prima di partire al fronte. Di signor Antonio, suo fratello, nessuno osava immaginare come un uomo cosi avido potesse aver avuto mai un amore, la gente a cui faceva firmare le cambiali vedeva in lui più che altro una sanguisuga che succhiava dalla disperazione della gente la poca dignità rimasta.Ma agli occhi di Luisigheddu i signori brillavano non tanto per i loro animi quanto per l’argenteria della loro villa, i grandi quadri de sos giajos (antenati) appesi nella parete di fronte al grande camino e aspettava il momento in cui avrebbe finalmente accompagnato la mamma a preparare sa banca pro sos mortos nella grande villa (il tavolo per i morti).
Il bambino seduto nella poltrona, approfittava il fatto che i signori portassero i fiori alla tomba di giaju e giaja (i nonni) per poter osservare la mamma che preparava il tavolo rotondo in mogano rossiccio per la notte dei morti.  La donna con gesto deciso spiegava la tovaglia intagliata a piquet, metteva i due piatti di fine porcellana, affiancava i tovaglioli in raso giallo e completava con i calici di cristallo. Non osava chiedere il perché mancassero le posate, sapeva già, mentre un brivido gli attraversava la schiena, il motivo di tale assenza, e ci pensava la mamma ogni volta a ricordarglielo: “Luisighè attenzione a no ponnere sos burteddos o sas forchettas ca sos mortos si poden punghere e punghere puru a nois (Luigino stai attento a non mettere i coltelli e le forchette poiché i morti potrebbero pungersi o pungere noi).Messo al centro il portafrutta a cascata in argento, il lavamano con la pasta asciutta ancora calda, il sigaro toscano ancora incellofanato (sarebbe stato uno spreco aprirlo) e la bottiglia di vino la donna lo guardava ancora un pò a distanza, contenta rimetteva lo scialle marrone sulle spalle e preso per mano il bimbo lasciava la grande casa per avviarsi verso casa, la sua di casetta.Luisigheddu apparecchiava da solo pro sos mortos de domo (i morti di casa), la mamma sapeva che si sentiva l’uomo di casa e lo lasciava fare mentre lo guardava accovacciata nella sedia di paglia rotta dando le spalle al camino.Il tavolo era ben diverso da quello dei signori, ma non meno dignitoso: 3 piatti sbeccati: unu pro giaju, diceva Luisigheddu, unu pro giaja e unu pro bisaja bonanima (uno per nonno, uno per nonna e uno per bisnonna buonanima) In chelu che sian (che riposino in cielo), sospirava in preghiera la mamma.  La tovaglia era ricamata da qualche rattoppo, al centro del tavolo un lavamano cun sos ciccioneddos (gli gnocchetti), fatti con amore dalla donna uno per uno su un vetro spesso a scalanature, dalla tipica forma di conchiglia allungata. Il bambino aggiunse un fiasco di vino rosso, una sigaretta storta dall’anno prima, un pò di latte dentro la tazza di smalto sbeccata, 3 pappassini, un grappolo d’uva bianca e un tozzo di pane.Il bambino soddisfatto diede un ultima controllata in giro, prese lo spiedo appoggiato al camino e lo nascose con cura.

 La mamma lo guardò con approvazione e insieme si stesero sopra il lettone in religioso silenzio dopo aver acceso il lumicino sul piano polveroso del camino. La notte arrivò presto. Il maestrale sembrava capisse che dovevano arrivare numerose visite nelle case del paese, e urlava quasi riecheggiando dei gemiti dei morti, soprattutto quelli dimenticati che arrivavano e trovavano tavoli vuoti e lumicini spenti.La notte la porta della casetta non era stata chiusa a chiave per cui il vento con facilità vi soffiò dentro invitandoli ad entrare.  Per primo entrò giaju, un ometto dalla schiena ricurva dal tanto lavoro svolto sulla terra, e dagli occhi di un verde azzurro che curiosi cercavano intorno, si tolse la ciccia a quadri e mostrò il luccichio del dente d’argento quando sorrise contento guardando il tavolo, e vedendo che non si erano dimenticati di lui. Senza parlare l’uomo si voltò verso la moglie che zoppicando lo seguiva prendendolo a braccetto, anche lei sorrise, tirandosi dietro i ciuffi dei lunghi cappelli neri raccolti in un morbido mogno. Alla fine comparve anche lei bisaja (bisnonna), si avvicinò leggera ai due che dormivano e non potendoli toccare ne volle sentire ancora una volta i loro profumi. Giaju annusò il profumo del vino che tanto amava, e riconobbe che era quello del compare Michelinu cantas buffadas umpare! (quante bevute insieme) pensò. La moglie guardò i polposi chicchi d’uva e il pane posto accanto, quante mangiate de ua cun pane! (di uva con pane)e per ultimo la bisnonna desiderò annusare tanto sa suppa de latte (zuppa di latte). Era già ora di andar via, l’uomo volle ancora rivolgere un ultimo sguardo a quella sigaretta storta che aveva in vita fumato, o meglio diceva la moglie faceva fumare agli altri. I tre prima di uscire, richiamati dal sibilo del maestrale che minacciava di chiudere la porta, guardarono con nostalgia e immenso amore madre e figlio abbracciati sotto la coperta a quadri, la stessa che aveva riscaldato le loro notti e benedicendoli, lasciarono la casa, la loro casa, contenti di non essere stati dimenticati.

Il maestrale provò a bussare alla porta dei signori Antonio e Matilde, vi entrarono in due, un vecchio ben vestito con un cilindro di raso nero in capo e una profonda tristezza che celava i suoi lineamenti, a fianco a lui un giovane soldato, con l’uniforme pesante verde. Il vecchio guardò l’argenteria, osservo i fratelli che dormivano avrebbe voluto dire cosa aspetta a chi è avido, ma non poteva e triste si allontanò senza neanche annusare il profumo della pasta posta al centro del tavolo apparecchiato. Il soldato aveva un bel viso, sorrise osservando con amore la donna che dormiva con a fianco nel comodino la sua foto, l’unica che le aveva lasciato prima di morire al fronte, ma gli bastò per capire che non si era dimenticata di lui. Si avviarono ma mentre lasciavano la casa un gemito forte attraversò lo spirito del vecchio: era la visione di quel sigaro, ancora confezionato. L’avidità del figlio era cosi tanta da non farle assaporare il profumo del Toscano, che tanto amava, unico piacere che si era concesso in vita. Strillò e il gelo di quel strillo riecheggio nella grande e lussuosa casa, svegliò i due fratelli che credettero fosse il miagolio del gatto e lesti si riaddormentarono. Ma quello strazio raggiunse per un attimo anche le case povere intorno alla grande villa, vi abitavano cuori poveri e semplici, che rabbrividirono, si fecero il segno della croce e pregarono con un requiem eterno per quell’anima in pena che ancora in quella grande casa gridava e urlava ogni anno puntualmente il grande dolore e la profonda ferità creata negli animi dall’avidità umana.



lunedì 26 ottobre 2015

STORIA: Sfogliare i documenti.

A cura di Mario Grimaldi
Entrare nei segreti dei documenti storici e come correre avanti e indietro nel tempo e nello spazio: per esempio le fonti provenienti dal medioevo sono documenti materiali e documenti scritti.DOCUMENTI MATERIALI sono gli edifici. i mobili, le pentole, le stoviglie, gli abiti, gli attrezzi di lavoro, le armi, le monete, insomma tutto ciò che è rimasto di quanto gli uomini e le donne hanno fabbricato per vivere, lavorare, viaggiare, combattere e così via. Tra questi documenti materiali sono molto importanti i DOCUMENTI FIGURATI, nei quali gli artisti rappresentarono le proprie imprese e la propria vita quotidiana. Si usavano, per far ciò diverse tecniche: il mosaico, la miniatura,., la vetrata, la scultura, l’altorilievo, il bassorilievo e persino il ricamo.I DOCUMENTI SCRITTI che per tutto il medioevo non furono libri a stampa ,come i nostri, ma solo opere scritte a mano perché la stampa non era stata ancora inventata.



E POI:

sabato 24 ottobre 2015

Pillole Medioevali : edilizia nel basso MEDIOEVO


A cura di: MARIO GRIMALDI




Mario Grimaldi

Edilizia nel basso Medioevo:


"Varie necessità di allora, quale per esempio quella dello sviluppo, per quanto ci riguardava, mercantile e della economia urbana, imponevano l’ampliamento della città e trasmettevano alla popolazione urbana una febbre edilizia senza precedenti.Il centro originario della città era fitto di torri e di palazzetti nobiliari, ognuno dei quali aveva il suo forno e il suo pozzo, che venivano affittati a chi non li aveva creando ingorghi di gente, bestie e carretti. Gli edifici erano stati costruiti senza alcun piano preciso ed erano affacciati su un intrico fittissimo di stradine e vicoletti, tutti storti, spesso ciechi e sbarrati da un altra casa, sorta a chiudere il passaggio come per dispetto.Inoltre, nel tentativo di fornire alle stanzette un sia pur minimo sfogo, venivano aggiunti balconcini e verandine in legno che, sporgendo sulle stradine strette, impedivano persino al crocifisso di passare quando un prete si recava da un malato, (le stesse chiese affacciavano spesso su spazi angusti e avevano i muri esterni in comune con le case di abitazione di qualche signorotto.Il panorama dei borghi, al contrario era meno pittoresco e un po' monotono, ma più razionale. La gente che arrivava in città da fuori, infatti, costruiva seguendo le direttive del Comune, che cercava di creare vie principali dritte e relativamente ampie e di fornire i quartieri delle attrezzature principali (i forni e i pozzi).Le nuove case erano piccole e modeste, quasi sempre di due piani e addossate le une alle altre; gli storici le hanno chiamate, con un’espressione attuale, < case a schiera >. La differenza con quelle nobiliari cominciava a notarsi anche nei materiali usati. Mentre i ricchi ricostruivano in pietra i vecchi edifici di legno, il legno restava la struttura portante delle case più povere.Queste <case a schiera> avevano una stanza al piano terra, che era spesso cucina e bottega, e una al piano di sopra con un unico letto in cui dormiva tutta la famiglia, che in quest’epoca era cresciuta fino a sette-otto persone: immaginiamo dunque la promiscuità con la quale si viveva.Ci si coricava tutti nudi, nella speranza che di notte pulci e altri parassiti abbandonassero gli abiti. Le finestre erano piccole e chiuse da ante di legno. Di giorno, per avere un po di luce e non fare entrare le mosche, si applicavano alle finestre delle tele cerate o dei fogli di pergamena. I vetri (la tecnica del vetro <a fogli> era stata appena inventata) era un lusso anche per i più ricchi e si usavano solo per i finestroni delle chiese."






giovedì 22 ottobre 2015

Sassari - Lo stemma della tua città.









A cura di: Sassari Storia

Questo primo video dedicato allo stemma di Sassari è intessuto di documenti visivi e scritti oltre che al commento vocale, ma i metodi per affrontarli sono risultati difficoltosi a causa delle svariate improbabilità che a tutt’oggi ne caratterizzano le loro incertezze storiche. Si parla addirittura di ippopotami oltre che di scudi e di torri, quindi è facile capire e far nostre, insieme agli autori, le perplessità e le inevitabili contraddizioni che fino ad oggi sono state palesate da tutti gli storici e studiosi che si sono appassionati all’argomento.Comunque, riteniamo che questo primo lavoro (al quale, dopo l’esperimento di altre opportune ricerche, ne seguirà un secondo), sia meritevole delle dovute attenzioni da parte di tutti NOI.Nel ringraziare,ancora una volta tutti i fautori, auguriamo buona visione. Nel ringraziare ancora una volta tutti i fautori, auguriamo buona visione.
Posted by Manuela Trevisan on Martedì 20 ottobre 2015
370 condivisioni 
frame Piace a Mino Fauzia, Maria Antonietta Pedoni, Samuele Pinna e altri 431.

lunedì 19 ottobre 2015

MEDIOEVO: Invenzione delle tecniche finanziarie.



A CURA DIGiovanna Palmieri e Mario Grimaldi


Tecniche finanziarie usate in tutti i territori italiani,
(quindi anche da noi).


In quei “bui” tempi nella vita già rischiosa dei mercanti, poetare con se tante monete d’argento da comprare l’intero carico di un convoglio aumentava i pericoli.

Per risolvere il problema, i mercanti inventarono una serie di tecniche finanziarie che resero più comode e rapide le contrattazioni. Una fu la CAMBIALE, una “lettera di cambio” che permetteva di viaggiare, senza denaro addosso ed era l’equivalente di un odierna carta di credito. Un’altra fu l’ASSICURAZIONE che ridusse i rischi di viaggio.
Risultati immagini per moneta medievaleRicordiamo che Italiana fu anche la prima Banca nata però a Genova nel XII secolo. Prese questo nome perché anche il banchiere, come un qualsiasi bottegaio, svolgeva le sue contrattazioni stando in piedi dietro un banco.
All’inizio la sua funzione si limitava a quella di cambiavalute, non prestava denaro perché ufficialmente il potere ecclesiastico non permetteva ai cristiani di svolgere questa attività che chiamava USURA e che condannava come peccato mortale. Ma senza i prestiti non sarebbe esistito il commercio, e quindi questo compito era assolto da ebrei, la cui religione non vietava tale attività. Già nel XIV secolo, tuttavia, molti vescovi avevano tolto questa proibizione nei loro territori.
Era invece lecita, anche per i cristiani, la commenda, un contratto con cui una persona danarosa si impegnava a finanziare la spedizione di un mercante. Al ritorno il mercante tratteneva i tre quarti swl guadagno mentre un quarto andava al finanziatore. 

Queste tecniche finanziarie permisero l’ingresso nel campo degli affari di una categoria di persone molto facoltose che non commerciavano in proprio, ma mettevano il denaro a disposizione del mercante e, se erano accorte e fortunate, accrescevano il proprio capitale senza muoversi da casa: I FINANZIERI.














lunedì 12 ottobre 2015

Sassari storia

#sassari

Ieri abbiamo trasmesso uno showreel di quella che è stata la mole di lavoro del mese precedente. Oggi trasmettiamo un video un po' più curato per spiegare esattamente quale è la missione di Sassari Storia. Ricordiamo a tutti gli amici presenti sul nostro spazio, che noi non abbiamo bisogno e intenzione di trarre profitti da questo hobby. Tutto gratuito e tutto a disposizione degli iscritti. Anticipiamo che è in fase di esecuzione e di studio, il tanto agognato programma che di volta in volta racconterà gli aneddoti e le vicende storiche riguardanti la nostra magnifica città. Con l'ausilio degli esperti, si parlerà di storia attraversando i vari periodi. Chiediamo gentilmente a tutti i nostri amici/membri, di condividere questo video per rendere pubblica la nostra missione. Sassari storia... è sempre con Voi. PS : Chiunque avesse del materiale storico da inviarci, potrà farlo pubblicamente personalizzandolo e dotandolo di un minimo di recensione storica. Grazie per la vostra attenzione. ( Per Sassari Storia Manuela Trevisan ) #sassari

Pubblicato da Manuela Trevisan su Mercoledì 29 aprile 2015

Amore amicizia fedeltà un'unico enorme sentimento: "Il cacciatore e il suo gregario".

-----
A cura di : MARIO GRIMALDI

L’uomo lasciò scivolare la bicicletta , come in una leggera planata, lungo la discesa dalla cima del crinale, dopo aver affrontato una salita faticosa ( da percorrere in quelle condizioni) senza essersi risparmiato nel pedalare. L’animale, che amorevolmente trasportava nella cassetta alloggiata vicino al manubrio, con i suoi occhietti attenti scrutava la campagna, ricca di secolari ulivi, ma, a quei tempi parca di abitazioni - solo qualche casupola contadina - e sparse qua e la ,disperse nelle centinaia di ettari, qualche casa padronale appannaggio dei signori.Il vecchio cacciatore, che fino a quel giorno non aveva mai perso una giornata di attività venatoria, da una vita durante la quale era stato accompagnato dal suo gregario, amico unico e vero caratterizzato dalla sua tipica peculiarità canina: fedeltà incondizionata, tentava di raggiungere la sua postazione, quando ad un certo punto qualcosa accadde.
Aveva superato i settant’anni, era ancora forte, perfettamente in forma, per quanto poteva permettere l’età di esserlo; eppure, quel giorno si accorse che vi era qualcosa che non andava per il verso giusto. Infatti si sentiva disturbato da uno strano capogiro, cercava di trovare, dentro di se, il motivo di quel, per lui raro malore: “ < Ma sarà perchè ancora non ho consumato la colazione, oppure, forse, anche, quel bicchiere di vino in più che mi pare aver bevuto la scorsa notte durante la cena...”> Aveva appena terminato di pensare quando improvvisamente la ruota anteriore della bici stallo sulla strada sterrata e ricca di sassi, il rendersi conto che stava per cadere e che ciò effettivamente accadesse fu tutt’uno.
Rovinò in una impervia cunetta e solo la provvidenziale presenza di un pino, col suo tronco ne fermo il pericoloso rotolare. Perse i sensi per qualche minuto e una volta riavutosi si rese immediatamente conto di aver una gamba fratturata: ed ora come riesco a risalire sulla strada si chiedeva mentre stringeva i denti per il lancinante dolore. ... Roki!!! gridava, Roki... Roki !!!, ma dopo diversi tentativi si accorse che il suo richiamo era inutile, e fu questo che lo getto tra le braccia di un ansia talmente forte da fargli dimenticare il dolore procurato dal trauma subito. “Sarà morto il mio cane, avrà riportato qualche frattura anche lui, povera bestia, e quindi non avrà neanche la forza ne il fiato per rispondere al suo padrone”. Intanto si erano fatte circa le ore 18 del pomeriggio, di quel pomeriggio novembrino, umido e un tantinello anche freddo. L’uomo, se pur di grande coraggio, si sentiva smarrito ed ogni tanto le sue labbra si schiudevano in un smorfia di crudele dolore e di disarmante costernazione per quanto poetesse esser accaduto, soprattutto al suo fido amico.Passarono alcune ore, quasi angosciose, ma finalmente, Zio T...., intravide in lontananza, sul ciglio del viottolo, la luce di una torcia che faceva da padrona nel buio della notte oramai sopraggiunta; udiva un latrato sempre più vicino e insistente che squarciava l’assoluto silenzio della campagna. Ebbene si! , Roki, non si era procurato neanche un graffio nella caduta ma si era reso subito conto di non poter intervenire in aiuto del suo amato padrone. La saggia, se pur istintiva decisione da parte della creatura fu quella di attivarsi per cercare aiuto, pr diverse ore tento di attirare l’attenzione nei pressi di alcune case ubicate li intorno, ma non sempre l’intelletto umano è compatibile in termini di comunicazione con quello animale, quindi qualche pietra e perfino qualche calcio allontanava il cane. Quel cane che però è il caso di dire”non demordeva” portando avanti la sua missione finchè non ebbe successo quando incontrò quella sensibilità umana che lo capì, lo seguì e dunque soccorse il suo padrone. Tutto fu risolto per il meglio.Questa è una storia vera, potrebbe sembrare una storia di ordinaria amministrazione, lo sappiamo tutti che gli animali suffragano nella maggior parte di eventi sfortunati i loro padroni, e non solo; ma se pensiamo che molti esseri umani ogni giorno si macchiano di quell’infamante esercizio della omissione di soccorso, ebbene allora diamo un notevole valore all’operato di queste creature non umane che meglio dimostrano (scusando il gioco di parole) l’umanità.

(Fatto accaduto circa ottant'anni or sono a Sassari in Località Filigheddu).

--------- frame

venerdì 9 ottobre 2015

Sassari e il suo passato




A cura di:  Paolo Grindi
Consiglio agli amici di Sassari Storia di leggerlo, è un pochino lunghetto ma ne vale la pena. Naturalmente non è farina del mio sacco (ho fatto alcuni aggiustamenti, per essere più fluida la lettura), è una bella e caratteristica descrizione della nostra Sassari del XIII sec. del nostro concittadino Enrico Costa.
“Visitando l’attuale rione di Sant’Apollinare, si può ben farsi un’idea dell’antico villaggio di Sassari. Esso consisteva in diversi piccoli gruppi di misere casette mal costruite , messe là alla rinfusa, senza ordine, sopra un terreno accidentale, formanti una piazzetta rettangolare che ha conservato fino ad oggi il battesimo di “Pozzu di bidda”, come lo aveva al tempo remotissimo.

A cominciare dal secolo XIII, la città era chiusa da una cinta muraria con quattro porte di uscita, le quali si aprivano all’alba e si chiudevano all’Ave Maria; le porte erano: del Castello, di Durusele, Sant’Antonio e Utzeri.

La topografia interna non aveva nulla di speciale: un vero labirinto di viuzze anguste, irregolari, sporche per la mancanza di canali di spurgo; le quali vie serpeggiavano in tutti i sensi fra gruppi e gruppetti di casette di meschina apparenza, unite spesso con archetti di sostegno, o addossate l’una all’altra, come pecorelle paurose e tremanti per freddo. Da questi meschini caseggiati spuntava una mezza dozzina di chiesette e parecchi oratori, fra i quali primeggiava la parrocchia di San Nicola, che più tardi doveva ergersi all’onore di Cattedrale. Gli edifici più distinti erano allora i due destinati a sede del Consiglio Comunale, e a stanza dei rappresentanti l’autorità governativa.
Era questa l’antichissima Sassari, che al principio del secolo XIV doveva prendere una fisionomia più spiccata e caratteristica, sia per i bassi e irregolari porticati che fiancheggiavano la via maestra, sia per i ballatoi di legno che adornavano le case signorili – delizia delle donne, che in quei tempi facevano vita casalinga, non uscendo di casa che per andare a messa, o in campagna.
All’interno della città la popolazione viveva nelle strettoie e respirava a disagio. Questa cinta di pietra non voleva allargarsi. Come crescevano le famiglie, così crescevano in altezza le misere casette, quasi in cerca d’aria e di luce.

Guai ai cittadini, se non avessero avuto uno sfogo quotidiano negli orti, vigne ed ameni giardini che circondavano l’abitato. Guai alle famiglie, se di tanto in tanto una peste provvidenziale non fosse venuta a decimarle. Pareva che la metà della popolazione si affrettasse a morire, per lasciare vivere più comodamente l’altra metà.  
Eppure, in quei bugigattoli, abitava nel secolo XIV una popolazione fiera, saggia, patriottica, che teneva alla gloria degli avi; una popolazione che sfidava qualunque pericolo, insofferente di ogni servitù; sempre pronta ad insorgere quando si credeva lesa nel proprio diritto, e pronta ugualmente a menar le mani quando la si invitava a prendere le armi per assalire la rocca di qualche prepotente di casa Doria. 
I nostri padri della patria, così fieri e tenaci della dignità del proprio paese, erano parimenti smaniosi di mettere le parrucche e di vestire le rosse toghe di damasco, per accompagnare i Candelieri alla chiesa di S, Maria, o per recarsi in pompa magna alla basilica di Porto Torres, col santissimo scopo di cenare lautamente a spese del Comune ed a gloria dei beatissimi Martiri Turritani.

Dentro quel guscio di noce, cerchiato di muraglie, ferveva la vita cittadina sassarese. Ma, quale era questa vita? Innanzitutto la smania delle gite in campagna a maggio e nell’ottobre, al tempo del raccolto; ogni domenica le passeggiate fuori la porta, in cerca di fresco e di sole; ogni tanto le processioni in onore a tutti i Santi del calendario; due tratti di corda ad un ladruncolo nello spigolo della casa comunale; le bastonate ad un malvivente dinanzi alle carceri di San Leonardo; i fuochi d’artificio sul colle dei Cappuccini; la corsa dei cavalli in “piazza” parecchie volte l’anno; un po’ di rogo nella “Carra Grande” per ordine dell’Inquisizione in nome di Dio; le staffilate a sangue sui banchi delle scuole, in nome della scienza; gli spettacoli della forca e lol squartamento dei cadaveri, in nome del Re.
La voce dei bronzi teneva desti i cittadini: la campana di Città che suonava il “ritiro”; le campane delle chiese che chiamava i devoti alle sacre funzioni; il campanone del castello, che annunziava l’agonia di un condannato a morte. 
Ed in mezzo a questa vita paurosa e ricca di emozioni, non mancavano mai le “gobbule” taglienti, le mascherate allusive, le burlette spiritose – poiché su tutto e su tutti predominò sempre nella popolazione sassarese quella nota satirica ed umoristica, che è nella sua indole e nel suo carattere. 
Parliamo ora dell’uomo e l’architettura. I severi costumi dei cittadini sassaresi, durante il periodo del regime libero (tra il secolo XIII e il XIV) rispondevano allo stile di quell’epoca: all’architettura pisana, caratteristica della sobrietà, semplicità e eleganza della linea e degli ornamenti. E’ così mantenne, con poche varianti, nei secoli successivi. Ma col secolo XVII le pure linee dello stile pisano cedettero il posto allo stile di un rinascimento barocco, gonfio e pesante. A questo stile rispecchiò fedelmente il carattere dell’uomo di quei tempi. I tozzi capitelli, le sovraccariche facciate delle chiese, le targhette a cartoccio, le decorazioni complicate, rispondevano alle smisurate parrucche, alle pompose toghe rabescate, alle guarnizioni di pizzo, alle trine d’oro, agli sbuffi, ai fiocchi, ai merletti, alle fibbie, ai ciondoli ed a simili cianfrusaglie. La pompa delle forme esteriori, i cerimoniali stucchevoli, le pose plastiche, le mosse leziose, mascheravano la povertà dello spirito e la miseria della sostanza. Tutto era etichetta, artifizio, teatralità. Teatralità nelle sedute del Consiglio Comunale; teatralità nella rappresentazione del “Discendimento in chiesa”, Teatralità nelle processioni religiose, teatralità nel preparare lo spettacolo della forca. Il Santo Ufficio e il Regio Magistrato regnavano col terrore dell’apparato scenico, il quale impressionava profondamente le masse bigotte e ignoranti. L’architettura rispecchiava fedelmente gli uomini.
Il Governo di Casa Savoia seguì in Sardegna, per lungo tempo, le orme del Governo spagnolo e ciò fino a Carlo Felice, il primo Re Sabaudo che si decise a smettere la parrucca. E fu appunto sotto il regno di costui (verso il 1825) che l’architettura degli edifici sassaresi entrò in una fase più geniale, per perfezionarsi in seguito, quando la marsina e l’abito a coda di rondine annunziarono al mondo il principio di una nuova civiltà. Ed anche questa civiltà ha forse descritto la sua parabola con la nuova Italia, per dar luogo a quello stile “Liberty”, che rappresentava l’uomo dell’ultimo periodo in tutte le sue manifestazioni. Gli edifici, come l’uomo, hanno cambiato carattere. Purtroppo però l’uomo di Sassari negli anni 70/80 ha cambiato nuovamente carattere, iniziando l’abbattimento di molte anzi moltissime ville ed edifici Liberty per costruire uffici, banche e grandi condomini, ma questa è un’altra storia".




Piace a Mario GrimaldiRita PintusDaniela Multineddu e altri 477.





























frame

Sassari: nascita del dialetto???








A CURA DI:  Marilena Ticca



Nascita della lingua sassarese???
Gavino Marongio (Letterato - Sassari sec.XIV?, sec. XV - ).
Alla fine di alcuni commenti a una gran raccolta di poesie di soggetto storico, da lui curata, nel 1414 il sassarese M. " Gaini de Marongio" così scriveva: < Tute cheste cose ho iscritto yo secondo lo sentimento de li supra scritti sonetti e canzoni di li diti poeti secomo presenti a tute cossi le dete guerre, e altre cose che se feceno eciam secondo le storie e carte che videro potere chiaramente cho fato in la dita citade de Sassari>. QUESTA LETTERA, - che pare scritta in dialetto sassarese italianizzato> viene ciata da E. Costa a dimostrazione - contro un'affermazione di Vittorio Angius - che la lingua sassarese non è nata dopo la peste del 1477 e 1528 <per i corsi venuti a ripopolare la nostra città deserta>, ma si parlava già nel 1414.
(m.t.)

lunedì 5 ottobre 2015

NARRARE LA SARDEGNA - "La vecchia del bisso"



A cura di: Elisa Casu



                                LA VECCHIA DEL BISSO


Le dita della vecchia, lavoravano con attenta pazienza, intorno alla piccola matassa del sottile e prezioso filo di bisso di mare, i cui riflessi d’oro luccicavano quella mattina nella spiaggia dove la donna sedeva nella vecchia sedia di paglia sotto la piccola tettoia di canne. A tratti la vecchia si fermava, sollevava il capo e si perdeva nell’infinito azzurro del mare, respirandone il profumo oleoso della salsedine mista agli odori acri dei residui della pesca della notte appena trascorsa.

Poi sospirando chinava ancora il capo e con la pinzetta riprendeva il fine e filamento dorato portandone avanti la cordatura
A volte disturbata da un leggero maestrale che si divertiva a buttarle, come un ragazzaccio dispettoso, qualche granello di sabbia sull’immensità dei suoi occhi azzurri.

«Bonamanzanada, Tia Lughia» (buongiorno Lucia), la scosse una voce alle spalle

«Ohia, m’asa asciucconadu» (Mi hai spaventato).

«Ell’e pruite?» (Perché?)


Era Juanne, l’amico di tia Lughia, che abitava ormai da alcuni anni accanto alla casetta sul mare della donnina. Non si conosceva niente del suo passato, diceva di giungere dalle montagne dell’interno. Ma Il sole e il mare avevano però ben presto solcato il suo volto, rendendolo simile a quello di un vecchio pescatore. Diceva alla donna di non conoscere il mare, eppure il mare stesso li faceva ritrovare ogni giorno sulla sua riva, seduti su due vecchie panche, così insieme salutavano il sorgere del sole all’orizzonte dell’alba, e osservavano la luna che brilla nel cielo subito dopo il tramonto. 


Juanne quella mattina salutò in fretta la donna, mentre poggiava sul tavolo consumato dalla salsedine “unu canestrheddu” (cestino di giunco) colmo di fichi bianchi.


La donna rimasta nuovamente da sola depose finalmente il bisso, la lente e la pinzetta sul suo cestino da lavoro e affondò ben volentieri i suoi pochi denti sulla polpa granulosa e dolce del frutto. Mentre prendeva un altro fico, giunsero però in spiaggia una coppia di mezza età che la guardava con curiosità:


«Vosthe est sa mastra femina de su bissu» (Voi siete l’esperta del bisso di mare? )


«Eja ell’e pruite» ? (Si, perchè ?).


Nostra figlia si deve sposare e vorremmo che ricamasse un asciugamano di lino per il suo corredo da sposa.


La vecchietta, passandosi le dita tra le labbra per togliere gli ultimi granellini dei fichi, li guardò con attenzione.


“Voglio conoscere la futura sposa”, esordi.


“Ma perché? La pagheremo bene, la ragazza non sta bene, quindi siamo venuti noi” rispose quasi infastidita la donna.


“La voglio conoscere, altrimenti cercatevi un'altra tessitrice” ribadì decisa .


I due si guardarono meravigliati, come se avessero di fronte una vecchia pazza, e il marito tolse la moglie dall’imbarazzo dicendole «andiamo dai cara vorrà dire che verrà Alice da lei».


Al mattino del giorno dopo, le due donne, la vecchia e la futura sposina si ritrovarono sotto la tettoia della casa della vecchia.


La ragazza mostrava uno sguardo intimorito da cerbiatta, entrambe sedettero una di fronte all’altra, mentre il mare con il suo ondeggiare sereno faceva da sottofondo alla loro chiacchierata.


La vecchietta porse subito un telo alla ragazza, su cui brillavano dei preziosi ricami fatti con la seta d’oro del mare, si trattava di un sole, una stella e della luna.


Vedi cara, disse la vecchina questi sono simboli di eternità, così come eterno è l’amore che ti lega al tuo sposo. Prezioso è il bisso con cui li ricamo, dono del nostro amico mare, perché prezioso è il sentimento del tuo cuore verso il tuo amato. Ora scegli quali di questi simboli vuoi che io ricami sul tuo prezioso telo del corredo. E così dicendo guardo a fondo il viso della ragazza.


Alice abbassò presto lo sguardo, depose il telo nella cesta da lavoro posta sul tavolo, e silenziosa osservava il mare.


La vecchia accompagnò il suo silenzio e riprese un altro ricamo che aveva già iniziato.


Dopo alcuni attimi la ragazza sempre con lo sguardo rivolto sul mare chiese alla nonnina.


«Tu credi all’amore eterno»?


E prima che la nonnina rispondesse buttò lo sguardo incuriosito su una vecchia bottiglia con dentro una pergamena ingiallita dal sole.


«Ma nonnina, questa è tua? Chiese»


«Si cara..»


«Ma è vecchia»?


«Ahahahah avrà più o meno 70 anni. E’ la mia promessa d’amore», sospirò la donna. «Quando avevo la tua età venivo spesso qui per accompagnare la mia mamma, e insieme osservavamo due giovani pescatori che sul loro gozzetto si allontanavano dalla riva per pescare il bisso di mare. I corpi abbronzati, resi lucenti dalla salsedine del mare li rendevano ai miei occhi due divinità. Mi innamorai del più giovane, uno sguardo e un bacio rubato sotto il chiarore della luna ci unì per sempre».


«E poi? cosa accadde?» chiese entusiasta la ragazza, mostrando finalmente il rossore delle sue giovani gote.


«Accadde che non lo rividi più, partì col papà, non ci salutammo ma tra gli scogli trovai questa bottiglia con dentro un messaggio»:


“Cara Lughia cantu mannu est su mare, gai est mannu s’amore meu pro a tie. Mancari t’appo acciappare a norant’annos a tando appo a t’aisettare”.


Ah, esclamo la ragazza portandosi le mani alla bocca! (Cara Lucia, quanto grande è il mare, così lo è il mio amore per te! Dovessi aspettare fino ai tuoi 90 io ti aspetterò).


«Nonnina quanti anni hai»? Chiese la fanciulla.


«90 la prossima settimana». Rispose serena la vecchia.


In quel momento arrivò dal retro della casetta il garzone del pane, un bel giovine.


«Signora posso? Ho portato il pane», chiese educatamente il ragazzo.


«Prego entra » rispose la vecchina.


I due ragazzi s’incontrarono con gli sguardi carichi di imbarazzo, entrambi arrossirono, e si udì a malapena un ciao sibilato.


La donna capi, guardò la ragazza le sorrise e tenendole strette le mani fra le sue le disse con dolcezza «Se hai qualcosa di prezioso nel cuore ritornerai.. »


La ragazza osservava ora il ragazzo con tristezza ma con una certezza nuova nel cuore e fuggì via come una gazzella.

Il giorno del suo novantesimo compleanno la vecchia tirò fuori dall’armadio in radica bianca un prezioso scialle color argento, si guardò allo specchio mentre lo poggiava delicatamente sulle piccole spalle dolcemente ricurve. Raccolse in un morbido chignon i suoi lunghi capelli bianchi e all’imbrunire raggiunse la piccola scogliera vicino alla sua casetta, dove 70 anni fa aveva ritrovato la sua promessa d’amore che emozionata stringeva fra le mani. Il mare quella sera mostrava un po’ di agitazione, buttando fra i piedi nudi della vecchia abbondante e fresca schiuma bianca.

La donna chiuse gli occhi e inspirò profondamente, aspettò che il mare entrasse in lei, con i suoi profumi, la delicatezza e la sua impetuosità.
E mentre concentrata si perdeva nell’immensa distesa d’acqua, senti una mano rugosa cingerla alle spalle.
La donna riapri gli occhi, sorrise e disse.
«Sei arrivato finalmente, hai mantenuto la promessa».
L’uomo taceva, ma sentiva il pulsare del suo cuore in ogni parte delle sue membra.
La donna finalmente si voltò e rise, risero tanto, tutti e due perché capirono che in fin dei conti non si erano mai persi, lei e Juanne infatti si erano ritrovati già da qualche anno. Il loro amico mare li aveva fatti rincontrare dando loro appuntamento ogni giorno al mattino al saluto del sorgere del sole e alla sera per dare il benvenuto al nuovo chiarore di ogni luna, mantenendo cosi la sua dolce promessa di eternità.

sabato 3 ottobre 2015

Santa Caterina

DISCUSSIONE  N° 1


Da Giacomino Puliga per:

Interesse collettivo, Pubblico una antica foto della chiesa di santa Caterina in Piazza Azuni. 
Mio zio non voleva che la pubblicassi ma non ho resistito.
E' stata ritrovata durante il restauro della chiesa di San Giacomo in piazza duomo. era dell'anzia no sacrestano..
La foto adesso si trova in America ... esattamente a Boston dallo zio emigrato.