venerdì 20 novembre 2020

Ospedale Psichiatrico di Sassari








A cura di Sassari Storia


Anche questa è storia della nostra città.
                                                                                                            

Ho trovato questa descrizione su l'ex ospedale psichiatrico di Rizzeddu. Molti di noi lo hanno conosciuto (non da ricoverati  !!!!!), per sentito dire o magari andando a giocare nel suo campo di calcio. 
Una triste realtà che fa parte dei ricordi di una Sassari che non c'è più. L’Ospedale psichiatrico di Rizzeddu a Sassari.

La testimonianza di un medico del ventennio ‘50-’70 di Maria Stefania Podda
Decidiamo di intraprendere un viaggio nell’impenetrabile, e forse per questo ancor più affascinante, storia del manicomio di Rizzeddu, con la testimonianza di uno dei suoi protagonisti, che per oltre vent’anni ha prestato lodevole servizio nella struttura. Erano gli anni cinquanta, precisamente il 1956, quando, all’età di 33 anni, Giuseppe Pacifico, medico psichiatra laureato all’Università di Sassari, approda all’ospedale di Rizzeddu dopo aver brillantemente superato un concorso. E vi rimarrà fino al 1978, anno in cui ottiene il trasferimento all’Ospedale civile.
Una vita dedita ai malati, e alla sperimentazione sul campo, quella del Dott. Pacifico, psichiatra della scuola pre-riforma, che alla carriera universitaria, caratterizzata peraltro da qualche screzio con l’allora Direttore del Dipartimento di Ricerca di Psichiatria, Prof. Rovasio, preferisce la strada della medicina applicata, a diretto contatto con i pazienti.

Una scelta coraggiosa, dunque, soprattutto perché in quegli anni, ci racconta, essere medico di manicomio richiedeva dedizione assoluta e grandi responsabilità, aggravate inoltre dalle precarie condizioni del sistema di cura, fortemente inadeguato rispetto alla portata delle richieste. Sul finire degli anni cinquanta, infatti, il manicomio ospitava ben 1200 pazienti, per i quali vi erano solo 6 medici in tutta la struttura. Il tempo dedicato al singolo paziente era perciò molto ristretto.
I malati, provenienti da tutta la Sardegna, e per lo più di estrazione sociale medio-bassa, arrivavano a Rizzeddu accompagnati dai parenti o dai Carabinieri, nella gran parte dei casi perché affetti da stato depressivo, peraltro comprensibile date le forti ristrettezze economiche e il grave disagio sociale di quegli anni, o perché considerati violenti, o semplicemente perché in forte stato di ubriachezza. Una volta entrati venivano poi suddivisi tra uomini e donne, e distribuiti rispettivamente in 7 e 6 reparti. Molti di loro facevano ingresso nella struttura, e vi rimanevano, nonostante venisse accertata la loro guarigione. I parenti rinunciavano spesso a riprendersi i familiari riabilitati, li abbandonavano alla solitudine generata dalla malattia, perché incapaci di affrontare il post-ricovero, anche a causa della mancanza di assistenza pubblica. In questo modo – ci spiega l’anziano medico – il manicomio svolgeva una duplice funzione: quella di luogo di cura, e al tempo stesso di recupero sociale, e sostegno alle famiglie. Erano perciò molto fortunati coloro che avevano dei parenti, che ogni tanto venivano in visita. Per gli altri invece, non c’erano contatti con l’esterno. Tra i casi umani più disparati, si trovavano storie di perdizione, e di abbandono alla malattia, ma anche forme di improvvisa “redenzione”, e di ritorno alla normalità.
Nel suo racconto Pacifico riporta il tragico caso di un paziente entrato all’età di 16-17 anni, senza mai uscire dalla struttura, e una vicenda dall’epilogo positivo, di un paziente di Oschiri, un certo *********, giunto nel ’70 e dimesso poco dopo, con il quale si è instaurato persino un rapporto di amicizia e di comunicazioni telefoniche a distanza di anni.
Sono tanti gli aneddoti e le rivelazioni sul mondo manicomiale che emergono da questa interessante testimonianza, tra queste la vicenda di un uomo che fece ingresso a causa del suo stato di ubriachezza, e che dichiarò di essere ambasciatore italiano a Oslo. L’episodio ha dell’assurdo, e persino del comico, data la dubbia credibilità del soggetto, che tutti credevano fosse in realtà un abitante di Osilo. Il misterovenne però risolto il giorno dopo, quando arrivò la notizia che confermava la dichiarazione del paziente. Era veramente l’ambasciatore italiano a Oslo.
Di episodi paradossali ne sono accaduti altri, ci racconta Dott. Pacifico, che pur senza entrare nel dettaglio, rimarca come in passato si entrasse in manicomio con una certa facilità. Tanti furono i ricoveri di “salvataggio”, molti dei quali dal dubbio fondamento medico, ma solo per sopperire all’abbandono da parte della società, alla miseria delle famiglie, e in periodi antecedenti, come quello fascista, per scopi politici. Quest’ultima tesi è confermata dal ritrovamento di oggetti posseduti dai malati, tra cui una vecchia tessera del Partito Comunista. In questa moltitudine di casi umani disperati, non sono mancati gli artisti, ospiti frequenti del Rizzeddu, come ci racconta Pacifico, e come testimoniato da documenti, oggetti e opere d’arte ritrovati. Tra questi il pittore P**** S****, entrato a Rizzeddu perché alcolista, al quale regalavano tele, pennelli, e persino qualche soldo per comprarsi il materiale; e un fotografo francese, del quale rimangono le tracce nelle foto recentemente ritrovate, e rese pubbliche nella mostra espositiva dal titolo “Uno sguardo ritrovato”.

L’enorme flusso di pazienti che giungevano nella struttura, generava forti problemi di sovraccarico, gestiti attraverso diversi passaggi. Pacifico ci dà una ricostruzione dettagliata dell’accoglienza dei malati, che in un primo momento arrivavano nel reparto di osservazione, dove venivano visitati dal medico di turno, e vi sostavano 15 gg per effettuare la diagnosi. Passato il reparto di osservazione, e individuata la diagnosi, si andava al proseguimento cura.
I violenti, gli agitati, erano i più pericolosi, e per eseguire su di loro il trattamento, si adottavano metodi estremi, talvolta si legavano nel letto, ma ci rassicura, non si ricorreva alla camicia di forza. In questi casi inoltre si praticava frequentemente l’elettroshock, ci racconta di averne fatti a migliaia. Nel difendere i metodi utilizzati, in particolare l’elettroshock, il Dott. Pacifico esclude che si tratti di un metodo violento, privo di risultati efficaci e duraturi. “Gli ammalati non sono tutti uguali” – commenta – “ho preso tanti schiaffi e pugni”, ma non per questo non sono riuscito a curarli, ricercando di volta in volta le soluzioni del caso. Pacifico considera il malato innanzitutto una persona, rifiutando così qualsiasi tentativo di omologazione delle cure, ritenendo indispensabile adottare il dialogo con i pazienti, studiare da vicino le patologie, e laddove possibile, personalizzare i trattamenti. Le sue dichiarazioni sono in accesa polemica con le metodologie moderne, che fondandosi sulla dissacrazione della medicina tradizionale, si sono tradotte in una condanna assoluta alle strutture manicomiali, e all’intero sistema di cura.

Se è vero che in passato si ricorreva con una certa frequenza all’elettroshock per curare i più differenti disturbi mentali, dalla schizofrenia, alla depressione, è pur vero secondo il medico, che l’introduzione dei medicinali, non ha certamente favorito una adeguata diversificazione dei rimedi terapeutici, generando al contrario un sovraccarico farmacologico, che non dà i risultati attesi, spesso per compiacere le grandi industrie farmaceutiche.
La testimonianza di Dott. Pacifico dunque, ci dà uno spaccato non solo della vita all’interno di una delle strutture più importanti per la cura dei malati con infermità mentali della Sardegna, ma va ben oltre, attraverso una lettura critica del cambiamento avvenuto nella medicina, a seguito della riforma Basaglia, ridando dignità alla struttura manicomiale, e ai metodi praticati, sia per fondate ragioni scientifiche, che per la funzione di assistenza e di sostegno sociale che assicurava. Questa insolita rappresentazione del manicomio, Pacifico la ricostruisce attraverso il racconto delle scene di vita collettiva, e dei rari momenti di festa e di convivialità, racchiusi nelle pellicole super 8, e nelle videocassette, gelosamente custodite nel suo archivio personale. Un medico-regista che amava immortalare quei pochi istanti di apparente spensieratezza, quasi a voler dimostrare all’esterno che il manicomio, non è soltanto luogo di sofferenza e disperazione umana, così come appare nell’immaginario collettivo, ma è anche spazio sociale, fatto di relazioni, di solidarietà, di recupero conviviale.

Quei filmati ci raccontano delle feste in maschera in occasione del Carnevale, delle gite al mare, delle celebrazioni religiose, in particolare quelle in onore di San Giuseppe, delle visite del Vescovo, del Prefetto, e di altre autorità civili. A questi momenti di vita collettiva partecipavano tutti, medici e infermieri, ma tra i pazienti vi prendevano parte solo coloro che non erano considerati pericolosi, o in gravi condizioni di salute. In questo modo si tentava di ricostruire all’interno dell’ambiente sociale del manicomio, momenti di normalità, che davano la percezione di vivere nel mondo esterno. Pacifico mostra con orgoglio questi filmati, che sappiamo, non sono certamente rappresentativi della vita all’interno della struttura, ma danno comunque un’idea della ricerca di evasione dalla condizione di disagio umano e di isolamento dalla società, che il manicomio di per sé generava. Un luogo autarchico, dotato persino di una improbabile autosufficienza economica. 

Nella vasta area che circondava la struttura ospedaliera, sorgevano infatti la colonia agricola, laboratori artigianali, piccole rivendite, che diventavano luogo di incontro fuori dall’ospedale. Una comunità, dunque, non più relegata alla particolare condizione di salute, ma resa autonoma, seppur racchiusa tra le mura del complesso manicomiale, in una rinnovata, o quantomeno insolita socialità. In questo angolo relazionale, si scardinavano i rapporti formali della quotidianità, tra personale medico, infermieri e pazienti, e tutti partecipavano agli esperimenti di scambio commerciale, e ai punti di ristoro, organizzati con strumenti di fortuna. 
Qualcuno dei pazienti, infatti, aveva persino messo su un servizio di caffetteria. Si trattava, come ci racconta Pacifico, di un giovane riabilitato, rimasto nella struttura perché senza una famiglia che lo potesse accogliere, che entrato in possesso di alcune caffettiere, aveva pensato di creare uno spazio-caffè. Dopo un po’ di tempo il ragazzo si toglie inaspettatamente la vita, lasciando sgomento tra gli altri pazienti e l’intero staff medico. Era il tipico caso di guarigione apparente, che come ci racconta Pacifico, era piuttosto frequente, così come erano frequenti le ricadute, soprattutto dello stato depressivo, generato a sua volta dal forte senso di abbandono.
Al termine del racconto emergono tanti elementi di riflessione, e alcuni dubbi di difficile risoluzione. Secondo l’anziano medico, l’aver chiuso i manicomi è stato senz’altro un errore, e averli sostituiti con i reparti di psichiatria degli ospedali, non ha facilitato l’intervento sui malati, e sulle problematiche sociali ad essi collegate. Oggi pertanto si assiste ad una difficoltà oggettiva nella cura dei disturbi mentali, e ancor di più nel reintegro dei malati nella società, e in particolare nelle famiglie, che oggi come allora, non vogliono accollarsi i problemi derivanti dalla presenza di soggetti affetti da infermità mentali. Lo scenario che si presenta è sempre lo stesso, i pazienti sono 

abbandonati alla solitudine della malattia, aggravata però dalla scarsa presenza di strutture pubbliche che li possano accogliere in via permanente, anche se rimane da sciogliere il dilemma sulla “umanità” della struttura manicomiale, che ingabbiava le persone e le costringeva ad un isolamento, che col passare del tempo rendeva gli individui interdetti al mondo esterno. Senza pretese risolutive, perciò, i dubbi incombono, e si scontrano con la realtà attuale, dove i problemi avanzano, e i rimedi appaiono insufficienti e inadeguati, per la gestione di quella che può essere definita una vera emergenza sociale.



Fotografie reperite nel web e tratte da - Antologia di " uno sguardo ritrovato" ( Fondazione Basaglia )

mercoledì 19 agosto 2020

FRANCESCO COSSIGA - DECIMO ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA.

 

A cura di Giuseppe Idile ( Capitano)

A cura di Giuseppe Idile ( Capitano)


Nel 1995 Francesco Cossiga rilasciò a Lucio Caracciolo  una lunga intervista nella quale parlava dei "misteri d'Italia" e della politica estera del nostro paese. Per capire meglio l’ideologia politica di base di Francesco Cossiga,  mio stimato concittadino,  sarebbe opportuno leggere con attenzione.

 

COSSIGA Per capire il declino attuale conviene anzitutto analizzarne le origini. E dunque ricordare quale fosse la nostra collocazione geopolitica durante la guerra fredda. Noi eravamo un paese doppiamente di confine: c’era un limes esterno, con i paesi dell’Est, ma allo stesso tempo esisteva un limes interno, giacché la cortina di ferro attraversava l’Italia e la spaccava in due – «occidentali» amici dell’America e «orientali» amici dell’Unione Sovietica.



L’Italia era segnata da una contrapposizione ideologica e di civiltà. Gli equilibri politici nazionali erano condizionati dalla costellazione geopolitica mondiale. Ricordo ancora un colloquio con Giuseppe Saragat, negli anni Cinquanta: «Ma perché cosa credi che io abbia rotto l’unità con i socialisti, se non per scegliere l’America, l’alleanza Atlantica, l’Occidente?» È chiaro che in questa condizione l’Italia era più un oggetto che un soggetto della politica internazionale. La scelta atlantica era obbligata. Su di essa convergevano l’interesse nazionale italiano e l’interesse ecclesiastico vaticano: non solo non eravamo in grado di garantire la nostra indipendenza senza l’ombrello atlantico, ma esso era necessario anche a proteggere la sicurezza della Santa Sede, l’organo centrale della Chiesa cattolica incastonato nel nostro territorio. Il fatto curioso è che l’opzione atlantica del Vaticano era più ecclesiastica che cattolica. Corrispondeva agli interessi di sicurezza della Santa Sede, molto meno al sentire di buona parte del cattolicesimo politico italiano. Nella Dc, la sinistra dossettiana era neutralista. Poi si allineò con De Gasperi, ma solo perché la neutralità si era rivelata impraticabile. Il nostro fu un atlantismo di necessità, un atlantismo minimalista. Questo spiega, fra l’altro, perché noi non siamo diventati una potenza militare al livello di paesi di analogo peso economico e demografico, tipo Francia o Gran Bretagna…



LIMES Forse anche perché avevamo perso la guerra…



COSSIGA Ma agli americani non importava nulla che avessimo perso la guerra! Loro ragionavano nel nuovo contesto bipolare. O di qua o di là. Su di noi ha sempre pesato il sospetto del neutralismo. I nostri alleati ci consideravano atlantisti per necessità, non convinti.



LIMES Non si fidavano di noi?



COSSIGA Non completamente. Basti ricordare che nella rete atlantica di Stay Behind entrò prima la Germania dell’Italia. A noi non ci volevano. Entrammo solo grazie alla mediazione della Francia.



LIMES Intende dire che furono i francesi a sponsorizzare Gladio?



COSSIGA Gladio è un’invenzione. Lei sa benissimo che non c’è un documento che parli di Gladio. No, io intendo la rete atlantica di Stay Behind – ricordo l’acronimo: «S./B.» – che avrebbe dovuto organizzare la resistenza nei paesi alleati in caso di aggressione dall’Est. Un organismo di non grandissima importanza, creato sulla base dell’esperienza dello Special Operation Executive voluto da Churchill e dell’OSS americano.



LIMES Quanto contava la presenza del maggiore partito comunista dell’Occidente nella percezione dell’Italia come paese inaffidabile?



COSSIGA Noi avevamo metà del paese dall’altra parte. I concetti fondamentali su cui si incardina l’unità nazionale dei nostri partner occidentali – patria e libertà da noi non erano valori condivisi. Su di essi l’Italia era spaccata. I comunisti avevano un’idea di patria diversa da quella che avevamo noi democristiani, sull’altro versante della cortina di ferro interna. Non erano traditori della patria. Semplicemente, ne avevano un’altra concezione. In entrambi, comunisti e democristiani, il concetto di patria era fortemente temperato dall’influenza del comunismo internazionalista, d’un lato, e della Chiesa, dall’altro. La verità è che nell’Italia della guerra fredda c’erano quattro tipi di lealtà, due da una parte e due dall’altra della frontiera interna: noi democristiani eravamo fedeli all’Italia e all’Alleanza Atlantica ma anche, in gran parte, alla Chiesa; loro comunisti erano divisi fra fedeltà nazionale e legame critico con il campo sovietico. Le radici della tragedia italiana sono tutte qui. Solo quando riusciremo a ricostruire un comune sentimento di patria potremo riconquistare il nostro posto nel mondo occidentale.



LIMES Per voi democristiani si poneva dunque un dilemma geopolitico e morale: essere fedeli all’Italia o alla Chiesa?



COSSIGA Confesso che non abbiamo mai avuto il coraggio di affrontare apertamente questo problema.



LIMES Ma lei personalmente …



COSSIGA Io non sono assolutamente un caso tipico di cattolico democristiano. Sono stato educato in una famiglia schierata con la Repubblica durante la guerra civile spagnola. Per me, cattolico liberale, il problema era già risolto in partenza.



LIMES Ma per De Gasperi, per Moro, per Andreotti?



COSSIGA Distinguiamo. De Gasperi, educato in uno Stato vero come l’impero austro-ungarico, era un cattolico laico, liberale. La sua scelta per il Patto Atlantico era insieme politica e di civiltà. Moro era un realista. Accettò l’atlantismo per ragionamento, non per convinzione. La scelta coscienziale di Moro sarebbe stata certamente, come per Dossetti, in favore di un’Italia neutrale. L’atlantismo di Andreotti fu frutto di una grande mediazione. Andreotti coniugò bene – fedeltà alla Chiesa e fedeltà allo Stato. Sarebbe molto interessante studiare la politica estera andreottiana e osservare quante volte egli tenne conto, per ragioni di convinzione personale ma anche di equilibri geopolitici, degli interessi della Chiesa.



LIMES Per esempio?



COSSIGA Prendiamo la guerra del Golfo. Io, come presidente della Repubblica e capo supremo delle forze armate, non ebbi alcuna titubanza, se non per quel che attiene a ogni coscienza pacifica e cristiana, a portare in guerra il mio paese. Sapevo bene che non era questa la posizione della Santa Sede. Sono testimone del fatto che invece questo per Andreotti fu un problema.



Lui era preoccupato di coniugare le strategie italiana e vaticana più di quanto non lo fossi io. E questo gli americani non lo apprezzarono. In realtà, la sindrome dell’8 settembre non ha mai cessato di incombere su di noi, nella percezione dei nostri maggiori alleati.



LIMES Vuol dire che lo stereotipo dell’italiano infido e traditore contava in seno alla Nato più della minaccia comunista?



COSSIGA Le risponderò con un aneddoto. Quando ero ministro dell’Interno mi occupavo naturalmente anche dei finanziamenti sovietici al Pci. La cosa non mi turbava affatto. Io non mi sono mai scandalizzato perché i nostri comunisti ricevevano soldi da Mosca. Durante una riunione di alti funzionari del ministero, in cui si analizzava il trasferimento fisico del denaro d’oltrecortina a Roma, a un certo punto domandai: «In che valuta commerciano?». Risposta: «Dollari». «Allora lasciateli in pace!». La cosa divertente è che poi gli americani andavano dai cambiavalute clandestini a ricomprarsi i dollari mandati da Mosca a Botteghe Oscure. E sa perché? Non perché gliene importasse nulla che i soldi arrivassero al Pci, per carità… No, il Tesoro americano temeva che fossero falsi! Né mi sono scandalizzato quando abbiamo scoperto la «Gladio Rossa», cioè l’organizzazione creata d’accordo con il Kgb dal Partito comunista per salvare i compagni, portandoli fuori dell’Italia in caso di pericolo. Ironia della storia, il termine usato dalla «Gladio Rossa» per definire questa operazione era lo stesso adoperato da Stay Behind: «esfiltrare». Ecco perché mi sento più laico dei comunisti: loro si scandalizzano perché noi avevamo Stay Behind, mentre io non mi turbo affatto per la loro «Gladio Rossa». Avevamo semplicemente lealtà diverse, nel ben determinato contesto della guerra fredda. Come diceva la grande spia Philby, «questa non è una guerra fra nazioni, è una guerra fra religioni; e io mi schiero dalla parte dei miei compagni di fede».



LIMES Un paese doppiamente di confine, con quattro lealtà e due sovranità – la nazionale e l’ecclesiastica: lei sta descrivendo l’estrema complicazione della costituzione geopolitica italiana e la diffidenza che essa suscitava nei nostri partner. Era quindi inevitabile il nostro basso profilo internazionale?



COSSIGA È chiaro che noi potevamo giocare solo di rimessa. La nostra dimensione di potenza era troppo limitata per immaginarci come un soggetto importante sulla scena mondiale. Essere percepiti dai nostri migliori amici come dei potenziali neutralisti certo non ci avvantaggiava. Ricordo che una volta, da sottosegretario alla Difesa, scandalizzai i militari che mi stavano ascoltando con una frase infelice: «Il nostro rapporto con l’alleanza Atlantica oscilla tra il servilismo e il tradimento». Purtroppo era vero. Lo stesso schema si riproduceva sull’altro versante del confine interno, fra i comunisti nostrani. I quali erano ideologicamente e antropologicamente diversi dai sovietici. E come noi eravamo guardati con sospetto dagli alleati occidentali, così loro non piacevano affatto ai compagni orientali. Questa struttura geopolitica interna finiva per spingere l’Italia verso una propria piccola Ostpolitik. Certamente noi fummo il paese occidentale più attivo per favorire la distensione con l’Est. La grande intuizione di Andreotti fu di collegarci alla Ostpolitik vaticana – ecco un caso di perfetta coincidenza di interessi fra Italia, da entrambi i lati della sua cortina di ferro, e Santa Sede.



LIMES Come spiega che questo paese vocazionalmente pacifista e neutralista optò per gli euromissili? Può raccontarci come maturò quella scelta, di cui lei fu protagonista in quanto presidente del Consiglio?



COSSIGA Effettivamente la scelta di avallare l’installazione degli euromissili, nel dicembre 1979, appare singolare in questo quadro. Essa fu determinante, in quanto la Germania aveva fatto sapere che avrebbe risposto di sì solo se anche l’Italia avesse accettato di ospitare i missili a medio raggio Pershing e Cruise. Noi democristiani fummo compatti, e anche laici e socialisti. D’altronde l’Italia aveva sempre un rapporto speciale con la Germania occidentale in seno all’Alleanza Atlantica, anche per i legami privilegiati fra i due grandi partiti cristiano-democratici europei, la CDU e la Dc. Ma la verità è che potemmo installare gli euromissili perché il Pci rinunciò a un’opposizione frontale. Quando Ponomarev venne qui per convincermi con le blandizie e con le minacce a rompere il fronte atlantico, l’altra faccia della sua missione era di spingere i comunisti a scendere in piazza contro i missili. Ma Berlinguer rifiutò.



LIMES Insomma Berlinguer le fece capire che non era contro gli euromissili?



COSSIGA Berlinguer e io avemmo dei divertentissimi colloqui. Due cugini sardi, che nel salotto buono del segretario di Enrico, Tonino Tatò, mangiando panini al prosciutto preparati dalla padrona di casa, Giglia Tedesco, discutevano di questioni strategiche e di missili, è una cosa che non dimenticherò mai… Oggi posso dire che allora informai gli alleati che per far passare gli euromissili avevo bisogno, non dico di una politica bipartisan, ma almeno di informare correttamente l’opposizione. Per questo mi feci dire dalla Nato ciò che era un segreto non comunicabile al Pci, e diedi garanzie sull’affidabilità di Berlinguer. Devo dire che noi, per rispetto verso il Pci, non approfittammo quanto avremmo potuto dei loro canali di comunicazione con Mosca per conoscere le reali intenzioni del Cremlino e le sue covert operations in Italia. Un giorno potrò raccontare come io stesso, dopo la caduta del Muro di Berlino, mi preoccupai di impedire che il crollo dell’Unione Sovietica creasse imbarazzo al Partito comunista italiano.



LIMES Ma questa Italia della Prima Repubblica era o non era un semiprotettorato americano? Che margini di manovra avevamo?



COSSIGA Non si capisce nulla se non si parte dal fatto che la guerra fredda era guerra. Non combattuta sui campi di battaglia, ma pur sempre una guerra. Da cui l’Unione Sovietica è uscita sconfitta e poi distrutta. Da una parte, c’era il dominio sovietico. Dall’altra parte, c’era una sovranità elastica americana. Qualunque alleanza si impernia su una potenza egemone. Il grado di libertà degli altri dipende dalla loro forza relativa nei confronti del leader. Noi eravamo uno dei soggetti più deboli. Non dico che fossimo un protettorato americano, ma insomma… Sarebbe interessante riesaminare da quest’angolo geopolitico internazionale certi fenomeni che da noi sono stati classificati solo come espressione della corruzione o della deviazione di apparati dello Stato. Ad esempio, la P2. Io credo che la P2 fosse l’associazione degli ultrà filo atlantici e filoamericani, naturalmente condita all’italiana. Lo so che va contro lo stereotipo corrente, ma se non ci liberiamo degli stereotipi non capiremo mai niente della nostra storia. E non potremo andare avanti. Noi avevamo certamente dei rapporti speciali con gli americani. Anche per la presenza della Santa Sede e del Pci, l’America era molto interessata alla stabilità dell’Italia e interveniva ogni volta che fosse necessario colmare il nostro deficit di Stato incapace di garantire la propria indipendenza.



LIMES In termini strategici concreti, che cosa vuol dire?



COSSIGA Vuol dire che siccome il nostro sistema interno della quadruplice lealtà ci impediva di costruire un esercito forte, per gli americani eravamo la loro portaerei nel Mediterraneo. A chi come me conosce per motivi di ufficio i piani strategici della Nato in caso di aggressione dall’Est, questo ruolo dell’Italia è molto chiaro. Noi eravamo la piattaforma per operazioni strategiche degli alleati. Era previsto perfino l’arrivo di una divisione di paracadutisti portoghesi!



LIMES E nei piani di attacco?



COSSIGA La Nato non ha mai avuto piani di attacco. Ha avuto piani di risposta nucleare, ma non ha mai studiato l’aggressione all’Urss.



LIMES In caso di attacco del Patto di Varsavia l’Italia doveva essere abbandonata ai sovietici?



COSSIGA Non c’è dubbio che gli americani volessero difenderci. Ma molto sarebbe dipeso dalla tenuta del fronte interno, dalla scelta che avrebbe fatto il Partito comunista. Se ricordo bene – sono informazioni che abbiamo avuto dopo l’Ottantanove – i sovietici prevedevano di conquistare l’Italia abbastanza rapidamente, in tre tappe. In una prima fase l’attacco sarebbe stato portato lungo due direttrici, verso Padova e Bergamo, partendo dall’Ungheria, secondo lo schema della Strafexpedition. Infatti, siamo venuti poi a sapere che durante una riunione del Patto di Varsavia a Bucarest il ministro della Difesa ungherese protestò con il sovietico comandante in capo delle forze del Patto quando scoprì che il peso iniziale dell’attacco all’Italia avrebbe dovuto essere sopportato dai suoi uomini, mentre l’Ungheria era sotto il tiro della nostra aviazione in caso di ritorsione nucleare. E si accorse che era lo stesso giochetto che gli avevano tirato gli austriaci nella prima guerra mondiale, quando contro di noi avevano mandato avanti gli ungheresi! La seconda fase prevedeva la costituzione di una sorta di Linea Gotica rovesciata; infine era pianificato lo sbarco in Sicilia e in Sardegna. E infatti in caso di invasione della Sardegna avremmo dovuto trasferire il comando di Stay Behind, lì insediato, verso una località che non posso citare perché questo è uno dei pochi segreti che la Nato è riuscita a farci rispettare.



LIMES E per i sovietici, quanto era importante l’obiettivo Italia?



COSSIGA È difficile dirlo. Però vorrei citare un fatto curioso. Ormai si sa molto sulle operazioni di infiltrazione e disinformazione sovietiche nei paesi alleati. Ad esempio, è accertato che molti dei cosiddetti scandali politici o militari nella Germania occidentale erano orchestrati da agenti di Mosca. In Italia, invece, c’è un buco totale. La penetrazione sofisticatissima del Kgb e del Gru in America, in Canada, in Europa, occidentale, sembra non riguardare l’Italia. Perché? Nessuno è mai riuscito a spiegarlo. Ma forse la ragione era, e spero che i miei amici comunisti non se ne adombrino, che non ne avevano bisogno perché c’era il Pci. E quindi gli interessi dello schieramento comunista internazionale erano tutelati in Italia direttamente da Botteghe Oscure. La presenza del Pci all’interno delle forze armate e di polizia era tale che non c’era bisogno di altro.



LIMES Come si inquadra il terrorismo nel grande gioco internazionale intorno all’Italia?



COSSIGA In tutta la mia vita politica io sono sempre stato un sostenitore del carattere «nazionale» dei brigatisti rossi: è una pura fantasia collegare le Br all’Est o anche all’Ovest. No, le Br erano italiane, sono nate e morte nel nostro ambiente sociale e culturale. Esse sono state il prodotto della conversione del Pci alla democrazia. Fin dal mito della «Resistenza tradita» circolava una domanda sovversiva all’interno della sinistra che, bloccato il canale Pci, trovò sfogo nelle Brigate rosse. Più in generale, il capitolo terrorismo aspetta ancora di essere chiarito. Escludo però la mano del blocco orientale nella sovversione di sinistra. Naturalmente escludere che i gruppi terroristici fossero pilotati da Mosca non significa che essi non potessero essere infiltrati da agenti stranieri. Ma infiltrati per sapere che cosa fossero, non per guidarli, che era impossibile. Del resto un giorno si scoprirà una cosa affascinante: come il Kgb avesse infiltrato il Partito comunista per controllarlo, certo senza successo! Ma so con certezza che fra i nomi di italiani sospettati di lavorare per Mosca non c’erano membri del Pci, né persone che avessero anche solo collegamenti esterni con esso.



LIMES E le stragi sono anch’esse autoctone, oppure si inseriscono in un disegno geopolitico internazionale?



COSSIGA Le stragi restano avvolte nel mistero. Io non mi meraviglierei però se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di servizi di paesi alleati o neutrali, non solo nemici, avessero potuto avere interesse a mantenere alta la tensione in Italia tra il fronte comunista e quello anticomunista. E quindi a tenere basso il profilo geopolitico dell’Italia. Sulle stragi ci sono due concezioni estreme, entrambe sbagliate. Quelli che, come i fratelli Cipriani, leggono tutto in chiave di teoria del complotto – la dietrologia come storiografia. E quelli che rifiutano qualsiasi ipotesi di strategia internazionale nello stragismo. Fra i due estremi passa la verità che ancora nessuno conosce.



LIMES Spesso si è parlato di collegamenti fra stragismo, terrorismo e mafia. Secondo lei il fatto che Cosa Nostra controllasse e controlli un’ampia fetta del territorio nazionale ci penalizzava nell’ambito alleato?



COSSIGA Ci penalizzava come immagine, certo. Ma la mafia non ha mai costituito un pericolo per l’Alleanza Atlantica. Anzi, tendo a pensare il contrario… Ma certamente era e resta un pericolo per lo Stato italiano.



LIMES Per tornare alla questione iniziale, lei mi pare stia confermando che c’era un interesse generale, dell’Est ma anche delI’Ovest, a che l’Italia contasse poco. E che anche le bombe potevano servire a questo scopo.



COSSIGA Sì. Ma al tempo della guerra fredda noi avevamo un grande vantaggio che oggi abbiamo perduto. Avevamo una politica estera di riferimento, quella americana e della Nato. In questo ambito, potevamo sfruttare l’utilità marginale, la rendita geopolitica di essere un paese di frontiera che aveva al suo interno un confine e che, inoltre, ospitava sul suo territorio la Santa Sede…



LIMES Ma eravamo veramente la frontiera orientale della Nato? Non era la Jugoslavia il primo paese che avrebbe dovuto fronteggiare un eventuale attacco da Est?



COSSIGA È vero. Non potremo mai sopravvalutare il ruolo della Jugoslavia. Non avremmo potuto fare la nostra politica di basso profilo nell’ambito dell’Occidente – che voleva dire evitare di spendere per un vero esercito e affidarsi alla protezione esterna – se non ci fosse stata la creatura di Tito. Noi dobbiamo essere eternamente grati alla Jugoslavia per averci evitato il contatto diretto con il Patto di Varsavia. Se non vi fosse stata la Jugoslavia avremmo dovuto destinare ben altra quota del nostro reddito alle armi, a spese del benessere generale.



LIMES Non tutti erano consapevoli, da noi, dell’importanza di questo tampone geostrategico…



COSSIGA Io certamente sì. E credo che quando si riscriverà la storia d’Italia nel dopoguerra dovremo rivalutare la funzione- chiave della Jugoslavia. Nei piani segreti del Patto di Varsavia la Federazione titina era considerata paese nemico. Però è vero che non tutti ne prendevano atto. Ricordo che quando, da presidente del consiglio, fu portato alla mia decisione un accordo bilaterale economico con la Jugoslavia, alcuni funzionari mi fecero notare che c’erano dei problemi riguardanti il commercio di tabacco. Io chiesi loro se non fossero diventati matti. Ma come, con un partner di questa importanza noi ci disperdiamo negli economicismi, nelle diatribe sul tabacco?



LIMES Adesso però questo relativo comfort geopolitico è finito.



COSSIGA È finito per sempre. Per questo, appena crollato il Muro di Berlino, io lanciai l’allarme. Dopo l’unificazione della Germania, nulla sarebbe stato più come prima, nella politica interna come in quella estera. Ma mi presero per matto, preferirono continuare a far finta di niente. Che cosa è cambiato, infatti? Primo, l’America è meno interessata a un’Europa non più terreno di contesa con la superpotenza sovietica. Eppoi le macerie del Muro ci hanno riportato alla realtà sull’Europa, al di là della retorica: altro che soggetto politico-strategico, in realtà era e resta una specie di Comecon rovesciato, una costruzione puramente economicistica. Secondo, l’indipendenza della Chiesa non ha più bisogno di essere protetta, perché non è più minacciata. Terzo, è scomparso il Pci. E non c’è più nemmeno la Dc, il che vuol dire fine del rapporto speciale con la CDU, e quindi con la Germania. Con gli Stati Uniti resta un legame particolare, ma con noi nella parte dell’intendenza. Che cosa facciamo per i nostri alleati nel conflitto bosniaco? Offriamo le basi militari.



LIMES Come mai non abbiamo mai chiesto un dazio agli americani? Non abbiamo nemmeno ridiscusso gli accordi segreti sulle loro basi in Italia, roba da anni Cinquanta…



COSSIGA Il dazio era la protezione che ci garantivano. E che adesso non c’è più.



LIMES E allora secondo lei che possiamo fare?



COSSIGA Dobbiamo porci la domanda che abbiamo sempre evitato: qual è il nostro interesse nazionale? Come possiamo difendere i nostri interessi in un mondo così complicato? Prima avevamo dei riferimenti obbligati: la nostra politica militare era quella della Nato, la nostra politica economica era quella della Comunità europea, la nostra politica ideologica era quella della Chiesa. Al massimo ci prendevamo qualche piccola libertà, grazie alla sicurezza strategica garantitaci dall’esterno. E adesso che facciamo? Prima apriamo un dibattito democratico sull’interesse nazionale, meglio è. Il senso del mio allarme, subito dopo l’Ottantanove, era tutto qui. Ero e sono spaventato dalla divisione del paese. Anziché unirsi, dopo la fine della guerra fredda l’Italia si è ulteriormente spaccata. Le vecchie armi ideologiche non sono state deposte. Ma dobbiamo capire che o riusciamo a riunificare la comunità nazionale intorno ai valori fondamentali, all’idea di patria e all’interesse nazionale, oppure non potremo più fare politica estera. Prendiamo un esempio concreto: il nostro interesse nazionale è di combattere la mafia. Ma sembra quasi che si voglia utilizzare la lotta alla mafia come un argomento di polemica interna. Interessa di più accusare il nemico politico di debolezza o di connivenza verso la mafia che costruire l’unità nazionale nella lotta contro di essa. Prendendo atto che il problema non si risolve sul piano poliziesco o giudiziario, ma su quello politico e sociale. Non c’è né una soluzione militare né una soluzione giustiziale. Sarò più chiaro: ormai sono due anni che magistrati e poliziotti annunciano di aver arrestato i capi della mafia. Ogni giorno decapitiamo la mafia. Eppure, purtroppo, la mafia è sempre viva. Perché facciamo finta di non sapere che i capi vengono sostituiti, com’è buona regola in ogni organizzazione.



LIMES Dunque per lei la prima priorità della nostra politica estera è la politica interna?



COSSIGA Noi non possiamo più fare politica estera senza ricomporre l’unità nazionale. Prima la facevamo anche grazie alle nostre divisioni. Adesso però non possiamo più permettercele. Per questo io sono per una nuova Assemblea costituente. Che non sarebbe solo un fatto istituzionale, ma un fatto nazionale, un volare alto per ricomporre l’unità nazionale. Certamente non possiamo ricostruire la nazione continuando a darci del fascista o del comunista.



LIMES Ma nel frattempo non c’è il rischio di essere emarginati dall’Europa che funziona?



COSSIGA Non è un rischio, è una realtà. Nel concetto di rischio è insita la possibilità di un’alternativa, nel senso che la situazione è ancora aperta. Ma temo che siamo già andati al di là, che l’Europa non ci voglia più. Almeno, finché restiamo come siamo. Eppure io sono decisamente a favore dell’Europa a due velocità. Io credo nell’Europa. Ma sono convinto che dovrà essere una cosa completamente diversa da quella che abbiamo oggi. Prima l’Europa era al di qua della cortina di ferro. Ora non possiamo più concepirla senza quei paesi che impropriamente chiamiamo dell’Est, ma che sono il cuore dell’Europa. Praga, Budapest, Cracovia, Varsavia, Bratislava cosa sono, Asia? I quattro cuori dell’Europa hanno sempre battuto a Roma, a Parigi, a Londra (con tutti i suoi distinguo) e a Praga. L’Italia può e deve essere parte di questo nuovo progetto geopolitico.



LIMES Ma nel caso si formasse davvero un nucleo duro franco-tedesco, o addirittura una Framania (fusione di Francia e Germania), che interesse avrebbero questi paesi a tenerci dentro l’Europa?



COSSIGA Continuerebbero ad averlo, se non altro perché facciamo parte del loro mercato. Ma naturalmente dovremo salvarci da soli, non aspettare la manna dal cielo. D’altronde, qual è l’alternativa? O si fa il nucleo duro, o non si fa nulla. Certo non faremo nessun passo avanti se restiamo nell’ambito attuale, vincolati a quel documento di contabili che è il Trattato di Maastricht. Un trattato senz’anima, in cui non c’è traccia dei fatti epocali dell’Ottantanove. Si vede benissimo che è un testo scritto negli uffici studi delle Banche centrali, neanche negli uffici studi dei ministeri degli Esteri…



LIMES Ma in uno scenario framanico non c’è il rischio di spaccare l’Italia? Una parte potrebbe andare con l’Europa franco-tedesca, l’altra restare a galla nel Mediterraneo afro-balcanico.



COSSIGA Sì. Il rischio c’è. La persistente frattura fra Nord e Sud e il suo possibile uso geopolitico resta l’unica grande intuizione di quel partito della borghesia stracciona – lo dico in senso non offensivo, un Lumpenburgertum nell’accezione sociologico- marxista del Lumpenproletariat, cioè di un proletariato senza coscienza di classe – che è la Lega. Bossi ha capito che l’Europa può spaccare l’Italia, e lui vuole essere sicuro che il suo Nord resti in Europa. Ma questo deve spingerci ad accelerare la ricomposizione della nazione, non a frenare il nucleo duro o durissimo. Altrimenti, seguendo questa obiezione, non avendo un esercito forte avremmo dovuto boicottare il rapporto speciale tra Francia e Germania nell’ambito atlantico. Ricorderò



sempre quello che mi disse Helmut Schmidt, uno dei maggiori statisti che io abbia mai incontrato, quando andai a trovarlo nel 1984 nella sua piccola casa alla periferia di Amburgo: «Senza un rapporto speciale tra Francia e Germania non faremo mai l’Europa. Capisco che voi possiate essere gelosi, ma non c’è alternativa». Io non so se un giorno potrò realizzare il mio vecchio sogno di diventare ministro degli Esteri (tranquilli, si tratta solo di un sogno!). Però ho imparato, nella mia esperienza politica internazionale, che non c’è cosa più dannosa per l’interesse nazionale di voler strafare. Se cerchi di sovradimensionarti nel campo della politica estera ti rendi ridicolo. E quando viene il momento del redde rationem sono dolori. Dobbiamo fare politica estera per quello che siamo, né più né meno. Non siamo la Francia o la Germania. E tuttavia possiamo fare molto, nell’interesse comune degli alleati, se siamo consapevoli di noi stessi. Certo, se vedo come ci siamo estraniati dalla guerra in Jugoslavia – anche perché i nostri alleati ci hanno voluto estraniare con vari pretesti – non posso che allarmarmi. Ma è chiaro che quando gli amici occidentali guardano in casa nostra, e vedono caos e lotte di fazione, non possono avere fiducia in noi. Questa fiducia dobbiamo riconquistarcela sul campo. Non c’è più molto tempo per farlo.