sabato 16 aprile 2016

IN VISTA DEL XXV APRILE


Breve riepilogo storico

        La crisi del 1929, esplosa in America, coinvolge ben presto tutto il mondo occidentale, recando fallimento e disoccupazione. Mentre negli Stati Uniti la soluzione viene prospettata nel New Deal roosweltiano. ls crisi in Germania sbocca nell’instaurazione di un regime totalitario condotto dal nazionalsocialismo di Hitler. Tra il regime fascista e quello nazista si stabiliscono rapporti di alleanza, l'Asse, ribaditi nel 1939 con il “Patto d’Acciaio”. 

    L'Italia aveva già partecipato a imprese belliche: La conquista dell’Etiopia e la guerra di Spagna a fianco dei Tedeschi. Nel 1939 la Germania scatena, con l’invasione della Polonia, la seconda guerra mondiale, alla quale più tardi. partecipò anche l’Italia. 
Contro le potenze, appoggiate dal Giappone, si muovono le democrazie occidentali e l’Unione Sovietica: nell’inverno del 1941-1942 tutta l’Europa è sotto il dominio tedesco; ma la resistenza e il contrattacco russi a Stalingrado, lo sbarco angloamericano in africa modificano la situazione. 

   Nel 1943 gli Angloamericani sbarcano in Italia; è la caduta di Mussolini a opera del re e di una parte della dirigenza fascista.Ma Mussolini, liberato dai Tedeschi, costituisce la Repubblica Sociale, mentre l’Italia è retta dal governo Badoglio, che intavola trattative di armistizio. L’offensiva alleata porta alla capitolazione della Germania (8maggio 1945). 

   Hitler si è frattanto suicidato. Il Giappone, bombardato da due atomiche, capitola il 14 agosto 1945. Ma la liberazione dell’Europa conosce anche la partecipazione popolare alla lotta armata contro i nazisti (la resistenza): questa si sviluppa particolarmente in Italia, dove numerose città sono liberate dalle forze partigiane. Mussolini catturato viene passato per le armi. Dopo la guerra, i nuovi partiti maturati nell’esperienza clandestina e della resistenza indicono un referendum elettorale: è la Repubblica, é l’esilio dei Savoia. 

   Nel 1946 viene eletta un’ Assemblea Costituente, che promulga la COSTITUZIONE. 
Nel 1947 si rompe l’unità antifascista e la vita politica italiana sarà dominata dal contrasto tra la Democrazia Cristiana e le forze sue alleate, da una parte, e l’opposizione costituita da comunisti e socialisti, dall’altra. 

   QUEL GIORNO DEL 25 APRILE DEL 1945 (che viene ancora oggi festeggiato com anniversario della liberazione) IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE - (CLN organismo che riuniva tutti i partiti antifascisti, i partigiani erano intenzionati a dimostrare la forza della Repubblica e a impedire che i Tedeschi in ritirata distruggessero ponti, fabbriche e attrezzature industriali. In effetti, l’industria italiana si salvò grazie alle brigate partigiane.) ORDINO’ L’OCCUPAZIONE DI TUTTE LE GRANDI CITTA’ , AVVENUTA TEMPESTIVAMENTE OVUNQUE.
 (@mariogrimaldi) -



Da Sassari si parte per combattere


CRONACA

La partenza del primo contingente di volontari per la guerra d'indipendenza. 


"Sassari 30 aprile”

         La campana di città suonava a festa, ed il tamburo del quartier militare chiamava alle armi 86 volontari i quali dovevano muovere alla volta di Porto Torres, onde prendervi imbarco per raggiungere l'armata che valorosamente combatte la Santissima guerra Italiana all'urlo “Viva Carlo Alberto ! Viva Pio IX ! Viva l'Italia ! “.

         Ultimato l'appello si approssimava l'ora della partenza, e si dirigevano al molo onde prendervi imbarco. La Guardia civica era già qui disposta in bella ordinanza sotto le armi, ed al primo vederli comparire li salutò con una salva militare. A quel saluto che con muto, ma espressivo linguaggio rendeva non dubbia testimonianza della emozione vivissima della quale erano compresi gli animi di quei nazionali i volontari ruppero le file di un tratto, e si lanciarono fra le braccia dei fratelli che lasciavano e che dirottamente senza eccezione piangevano!

           Scena dolorosissima fu quella, resa più commovente dalla straordinaria freddezza di quei giovani arditi che confortando gli astanti, e benedicendo a Carlo Alberto, altamente protestavano di credersi fortunati, adempiendo come adempivano con quell’ atto ai doveri di vero Cittadino . Una voce fra tanto gridava: a bordo i volontari, a mala pena poterono svincolarsi dalla folla del popolo, ivi accorsa da Sassari, che li tratteneva abbracciandoli ed animandoli all'impresa . 61 furono i Sassaresi volontari alla guerra d’indipendenza:

( Adis Antonio, Arca Giuseppe, ardito Angelo Maria, BiancoAntonio, Biddau Giovannico, Calvia Francesco, Cano Giovanni, Capita Nicolò, Carta Gavino, Carta Giovanni, Carta Stefano, Cossu Vincenzo, Crasta Angelo, Crispo Giacomo, Cubeddu Emanuele, Decherchi Antonio, Defranceschi Antonio, Diez Michele Esperson Giusepe, Falchi Vincenzo, Fresco Antonio, Ghera Paolo, Humana, Gioachino, Lai Salvatore, Loi Efisio, Malvasor Pietro, Manca di San Placido Don Alberto, Manca Salvatore, Masia Giuseppe, Massa Giuseppe, Melis Salvatore, Oggiano Giuseppe, Olivieri Paolo, Pais Salvatore, Petretto Sebastiano, Petretto Stefano, Pilo Gaetano, Pilo Giovanni, Pinna Giovanni, Piras Giuseppe, Piras Pasquale, Pirino Vincenzo, Pittalis Antonio, Rabaglietti Michele, Ribichesu Ignazio, Ribichesu Salvatore, Salaris Raffaele, Satta Gaetano, Scanu Giuseppe, Secchi Vincenzo, Seghi Filippo, Senno Salvatore, Sini Vincenzo, Sotgio Vincenzo, Sotgiu Giuseppe, Tealdi Giovanni, Valle luigi, Verdura Antonio, Verdura Bonaventura, ).
La foto del 70° Reggimento Fanteria Peschiera, dicembre 1884. Franceso " Cicito Branca è il secondo da sinistra , seduto in seconda fila.per parecchi giovani volontari la carriera militare rappresentò il naturale sbocco del proprio patriottismo.



sabato 9 aprile 2016

Personaggi sassaresi Salvator Ruyu.




                                                                                                                        



Salvator Ruyu (alias Angniru Canu)

"E' nato a Sassari nel 1878 e ivi è morto nel 1966). 

Era un letterato e poeta ed ha iniziato i suoi studi a Sassari laureandosi in Legge, dopo di ché prosegui gli studi presso la facoltà di Lettere di Roma, dove fu aiutato da Grazia Deledda, che godeva di Lui una gran stima, ad inserirsi negli ambienti letterari della "Cronaca Bizantina" di Angelo Sommaruga. 

Ha iniziato giovanissimo (nel 1902) con la raccolta di versi < A vent'anni > e con <il Canto d' Ichnusa > che venne edito in occasione della posa, sul monte Ortobene di Nuoro, della statua di Cristo Redentore. Alcune parti del poemetto < L'eroe cieco, pubblicate dalla "Rivista Sarda" nel 1919, lo resero apprezzato a livello nazionale conquistando, perfino, le lodi del D'Annunzio, 


Rientrato a Sassari si impegno nell'insegnamento presso istituti superiori, senza trascurare l'ambito giornalistico: fu in modo particolare apprezzata la sua opera di curatore della pagina letteraria del giornale cittadino "L'ISOLA", che fece diventare esperienza per i giovani scrittori e poeti isolani. Fu così

allora che, nel 1928, cominciò a pubblicare, utilizzando lo pseudonimo di AGNIRU CANU, poesie in vernacolo sassarese che apparirono sull' ISOLA e, nel secondo dopoguerra, su LA NUOVA SARDEGNA, tutte in seguito raccolte nei volumi Agniureddu e Sassari véccia e noba.











Con Agniureddu e Rusina è nato il personaggio di Agniru Canu:


è un giovane contadino, dalla personalità ,creatasi pian piano, che racconta la realtà, mai nascosta, ma anzi sempre messa in rilievo, delle origini e dei rapporti con la terra sarda.
Agniureddu e Rusina è un poemetto d'amore, mentre Sassari veccia e noba rappresenta, come il poeta le vive, pur nella mitizzazione dei tempi passati e da lui vissuti durante la sua infanzia, le realtà sassaresi."


mercoledì 6 aprile 2016

ARTIGIANI SASSARESI.


A CURA DI: Tino Grindi
    MESTIERI ARTIGIANALI BEN CONOSCIUTI.

Sono nato in via Turritana e ho trascorso i miei primi anni tra le stradine del centro storico di Sassari, in particolare nel quadrivio formato da via Università e via Turritana, le famose quattru cantunaddi: ho potuto così conservare memoria di scene di vita quotidiana che oggi riusciamo a vedere soltanto a teatro, assistendo alle migliori commedie in vernacolo sassarese.
L’economia della città, allora, dipendeva soprattutto dal lavoro autonomo, contadino, mercantile ed artigiano, oltre che da una miriade di ambulanti che proponevano agli angoli delle strade più trafficate prodotti solitamente raccolti da loro stessi in base alle stagioni. In autunno funghi e varie qualità di frutta: mele cotogne, cachi, mele, pere, noci, castagne, melagrane, olive ecc. D’inverno piedini d'agnello, monzette, ecc. In primavera fiori selvatici, ciliegie ecc. D’estate lumache, lumachine, lumaconi e varie qualità di frutta di stagione – fichi, fichi d’India, susine ecc. – e di verdure, tra cui la famosa lattuca degli orti del vallone di Rosello.
C’erano poi alcuni venditori ambulanti che proponevano prodotti particolarmente pregiati, tra cui i capperi che venivano raccolti con grande pazienza, posti in cestini pulitissimi e coperti con un candido tovagliolo ricamato. Altri si dedicavano a raccogliere le bietole selvatiche e ne offrivano le foglie più tenere, e ancora cicoria e cardi selvatici, oltre che le tenerissime foglie di ravanello selvatico chiamato siri.
Qualcuno che invece aveva un carretto o un vecchio carrozzino portava in giro per le strade prodotti quanti poteva averne un negozio di frutta e verdura, e li vendeva pesandoli con l’antica bilancia detta isthadera.
C’erano poi gli artigiani, che esercitavano con cura i loro mestieri, tramandati gelosamente di padre in figlio; e completavano il mosaico delle attività che rendevano la città viva e allo stesso tempo economicamente sicura, soprattutto per gli addetti che vi lavoravano: non esisteva la disoccupazione, per lo meno per chi aveva voglia di lavorare e di produrre.
Molti di questi artigiani, in particolare i fabbri ferrai (frairaggi), avevano una numerosa schiera di ragazzi di bottega (dischenteria), i quali crescevano nel mestiere sotto la guida di bravi maestri (masthri).
Anche i muratori (li masthri frabbigamuri) ed i falegnami (masthri d’ascia) potevano vantare di avere sempre con sé dei brabi dischenti (bravi apprendisti) che con molta volontà e passione cercavano di apprendere bene il mestiere e quindi proporsi per dare continuità dell’arte: perché così doveva chiamarsi un’attività che dava nuova forma alle materie prime, anche se veniva svolta con attrezzi non sempre precisi e calibrati.
Sassari era principalmente artigiana in tutte le sue fibre; venivano poi gli ortolani e i mercanti in genere.
Altre attività artigiane che si distinguevano erano quelle dei sellai (siddaggi), dei bottai (buttaggi), dei carrettieri (carrattuneri), dei calzolai (cazzuraggi), dei piccapietre (piccapidreri) ecc.
A questi mestieri più diffusi e comuni se ne aggiungevano altri più specialistici, come quello dell’armaiolo (aimaiolu), un misto di falegname e fabbro; e quello di lu buccurittadori, che costruiva e inseriva, come abbiamo già accennato, delle boccole in acciaio nelle aperture delle botticelle lunghe da 25 litri (mizzini), in modo che non sgocciolassero quando se ne versava il contenuto.
Altri artigiani importanti per l’economia e la vita quotidiana della città erano i panificatori (panatteri) che, assieme a li carradori (trasportatori di acqua, quando le condotta idriche ancora non esistevano), assicuravano gli elementi base della nutrizione.
A completare il lungo elenco c’erano ancora i mugnai (murinaggi) che traevano farina da vari cereali, e i conduttori dei frantoi per la macina delle olive: dalla loro attività derivavano generi di prima necessità come il pane, la pasta e l’olio.
Altri artigiani importanti nell’economia locale erano i conciatori di pelli (cunzadori), gli argentari e gli orefici, dai quali ebbe un tempo il nome una via importantissima a Sassari, quella che adesso chiamiamo via Rosello; e poi ancora gli imbianchini, chiamati impropriamente pittori (pintori), gli ottonai (uttunaggi), i ramai (raminaggi), ai quali ancora oggi è intitolata una via; gli orologiai (riduzzaggi), i barbieri (baiberi), gli stagnini (isthagneri), i tegolai (tiuraggi), i pellicciai (piddaggi), i sarti (trapperi), etc.
Tutti questi lavoratori si riunivano di solito in gremi o confrarie, alcuni dei quali si mantengono ancora ai nostri giorni e conservano gelosamente le loro tradizioni con gli antichi costumi e ornamenti. Tramite loro riusciamo a rivivere, agli inizi del Duemila, momenti di una memoria storica ormai lontana ma molto suggestiva e significativa.
Questi raggruppamenti di mestieri erano animati da una grande fede: veneravano ognuno il suo santo protettore, al quale era dedicata una cappella in una chiesa, e partecipavano, con la loro bandiera, effigiata con i simboli del santo stesso, alle funzioni religiose e alle processioni.
Conservo molti ricordi sulla figura e l’attività di artigiani che erano ancora attivi negli anni della mia gioventù, e dei quali oggi non c’è più traccia e quasi memoria.
In via Arborea, nel tratto tra via Turritana e via Capo d’Oro, c’era un masthru d’ascia, un falegname; la sua bottega era piccolissima, tre metri per tre circa, un po’ interrata (si dovevano scendere tre scalini per accedervi); si chiamava masthru Arturo; dalla mattina alla sera indossava un grembiule di pelle e un maglione di lana grezza.
Il bancone da lavoro occupava quasi tutto lo stanzino, lasciando pochissimo spazio; gli strumenti del mestiere erano pochi ma ben ordinati: pialle, cacciaviti, martelli, scalpelli, barattoli di colla, scatole di chiodi e viti di tante misure. Naturalmente non aveva corrente elettrica e nel suo angusto magazzino era costretto a lavorare anche di giorno a lume di candela. Quando lo guardavo, da ragazzo, vedevo un vero e proprio “Geppetto” della favola di Pinocchio.
I prodotti del suo lavoro erano spesso esposti sulla strada, subito fuori dalla porta: sgabelli, cerchi di legno per il braciere (li goffi) e altri strumenti per le donne di casa: rocci di labà in terra, tauri pa labà i la bazza. Faceva anche riparazioni di finestre, persiane e porte. Oppure costruiva qualche mobile su richiesta e, il più delle volte, gli accadeva, quand’era terminato, di doverlo smontare perché, a causa della ridotta misura dell’ingresso, non riusciva a farlo uscire intero; poi lo riassemblava in strada.
Questo il ricordo che ho di un piccolo artigiano che nella sua semplicità e modestia rendeva un servizio alla città. A quei tempi noi ragazzi avevamo la fortuna di poterci incantare al veder lavorare questi artigiani che meticolosamente, con l’uso delle mani e di qualche semplice attrezzo, creavano oggetti che adesso escono unicamente dalle fabbriche e sono fatti il più delle volte con materiali sintetici, artificiali.
Mi è rimasto impresso anche il ricordo di un armaiolo, un certo Manganesu, che aveva la bottega all’inizio di via Turritana, dove attualmente si trova una friggitoria. Il magazzino era grande e profondo, col pavimento in tavole di legno; da fuori non si riusciva a distinguere l’interno, che era totalmente buio, ma il padrone era facile trovarlo intento a lavorare sul gradino dell’ingresso: teneva stretto in una morsa portatile un tronchetto di legno che intagliava e limava di continuo, fino a farlo diventare un lucido calcio di fucile. Io e i miei amici ci appassionavamo nell’assistere a questo “miracolo”, nell’osservare come l’oggetto prendeva piano piano la forma che soltanto il maestro aveva in mente; e condividevamo la soddisfazione nel vederlo finalmente realizzato.
Quest’uomo era sempre vestito con una tuta blu, era anziano e piuttosto burbero, tant’è che noi evitavamo di disturbarlo quando era intento nel suo lavoro, e lo guardavamo in silenzio. A volte interrompeva il lavoro, per motivi che a me allora sembravano da poco, mentre oggi mi fanno pensare che fosse nel giusto e fosse dotato di un buon senso civico. Ad esempio, se passava una carrozza e il cavallo si bloccava per fare i suoi bisogni davanti alla sua bottega si adirava molto e, oltre a lanciare improperi contro il conduttore, andava in cerca di un vigile per chiedere l’immediata ripulitura del fondo stradale. Le discussioni si protraevano estenuanti, era capace di arrivare anche alla denuncia diretta di chi, secondo lui, infrangeva le norme della convivenza.
Quasi tutti i giorni se la prendeva con gli spazzini (mundadori), li rimproverava di non essere abbastanza abili nel loro mestiere, o perché sollevavano troppa polvere, oppure perché lasciavano tracce di sporcizia.
Insomma ogni pretesto era buono per protestare, senz’altro a buon diritto, anche se in quei momenti trascurava il suo lavoro, con la relativa perdita economica. Ma la soddisfazione di dire a tanti ciò che dovevano fare per ottemperare ai propri doveri lo faceva sentire orgoglioso: lo si vedeva chiaramente perché di tanto in tanto assumeva atteggiamenti di manifesta altezzosità.
A quei tempi lo giudicavo con sufficienza, adesso riesco ad interpretare meglio questi suoi interventi: oltre alla sua arte di bottega riusciva a far valere i suoi diritti nei confronti di chi aveva il dovere di tutelarglieli. Ai giorni nostri chi interviene più per cose del genere? Sono rarissimi coloro che dedicano il tempo ai difetti dell’amministrazione pubblica, del decoro e della sicurezza della città. Non mi meraviglierei di vedere una persona distesa per terra per un malessere e i passanti andare diritti sulla propria strada il più in fretta possibile, facendo finta di nulla.
Un altro artigiano che non posso dimenticare è il barbiere che esercitava la professione sotto casa mia. Si chiamava Gesuino, ero amico dei suoi figli.
L’arredamento della sua bottega era costituito per intero da suppellettili e attrezzi dell’epoca: due sedie girevoli in legno con poggiapiedi, sputacchiere e lavandini; quindi pettini, forbici, perette col borotalco, contenitori in metallo per l’acqua e l’alcool, rasoi ed arnesi per l’affilatura, tra cui il famoso bastone di ferula tagliato a metà, oltre che il bastone con la pelle di cuoio.
Il laboratorio era frequentatissimo fin dalle prime ore del mattino, tanto che apriva all’alba: la maggior parte dei suoi clienti usavano farsi sbarbare prima di andare al lavoro. Non era certo una clientela di bancari o di impiegati, almeno in quelle ore, ma di lavoratori che andavano in campagna, al mercato o nei negozi sparsi per la città.
Era un’attività piuttosto redditizia, a quanto ricordo, c’erano gruppi di persone che aspettavano fuori dalla bottega e passavano il tempo chiacchierando, in attesa di essere servite; questa attesa favoriva tra l’altro l'attività di un altro esercizio adiacente, l’antico “botteghino” di vini e liquori (vindioru) gestito da Antonio Pinna, detto in un primo tempo Biancasella, più tardi Bagassedda: i clienti della barberia andavano a bere un “cicchetto” per trascorrere meglio il tempo dell’attesa.
Anche il nostro Gesuino, il barbiere, era un assiduo frequentatore del botteghino, però sempre dietro l’invito del cliente al quale aveva appena reso il suo servizio. Solo adesso mi rendo conto quanto fosse rischioso farsi radere la barba da lui, dopo tanti clienti serviti; di certo la fermezza della mano non doveva essere buona, tant’è vero che ricordo alcune guance affettate e tamponate con emostatico (pietra allume) e cotone ed alcool.
I clienti che subivano questi imprevisti non si preoccupavano poi tanto perché nei loro discorsi a voce alta, mentre andavano al botteghino premendosi il cotone in viso, li sentivo dire: «Gesuino m’ha dittu chi v’aggiu la peddi isthracca, debu falla ripusà di più. Boh! Beh! Bimmuzi un vinu par abà».
Sono certo che anche molti lettori ricordano con un po’ di nostalgia cose, persone e avvenimenti ormai perduti e non più recuperabili, ma che sono pur sempre da portare come esempio di semplicità ed umiltà ai giovani d’oggi, sempre pieni di mille esigenze anche se hanno ottenuto tanto senza dover competere con nessuno: hanno avuto tutto e si comportano come se non avessero ricevuto nulla. Mi sembra che la morale di questi ricordi sia quindi che è bello conquistare ciò che si desidera, perché se lo si ha con troppa facilità non si prova soddisfazione né si matura.
Tino Grindi
[novembre 1997, inedito]









martedì 5 aprile 2016

Origini delle religioni sarde: "EBREI A SASSARI"












A CURA DI: Mario Grimaldi                                         


Comunità Ebraica  dal periodo medioevale



Così, nel corso del XIV° secolo, nelle principali città dell'Isola si formarono comunità Ebraiche (Alijamas)




COMUNITA' DI SASSARI:

Questa si sviluppò dopo il 1340. Fu concentrata nel quartiere di San Nicola in un gruppo di fabbricati che si affacciavano  lungo le strade  in prossimità delle mura.


La sua consistenza crebbe  rapidamente arrivando a qualche centinaio di unità  facenti capo a una quarantina di famiglie . Si trattava prevalentemente di piccoli commercianti  e di artigiani. La loro convivenza con la comunità cristiana  fu buona e nel corso dei decenni gli ebrei andarono inserendosi nel tessuto urbano fino a confondersi con i cristiani.


                                                                              
PERO',  intorno al 1400 la convivenza tra le due comunità (e non solo a Sassari, ma in tutta la Sardegna) cominciò a guastarsi  influenzata dal clima di intolleranza nei confronti degli Ebrei che era percepibile nel resto d'Europa, in particolare negli stati dipendenti dalla Corona di Aragona. A partire dalla seconda metà del secolo  molte delle libertà ddi cui gli Ebrei avevano goduto fino ad allora furono limitate.
Segno evidente di questo mutamento si può trarre dal cambiamento di giurisdizione  cui nel corso del secolo furono sottoposti. Infatti, mentre precedentemente essi erano giudicati, come tutti gli altri cittadini, dal vicario reale, a partire dalla seconda metà del secolo furono sottoposti alla giurisdizione del procuratore reale. Molti ebrei approfittarono di questo clima di crescente diffidenza per abiurare, convertirsi al cristianesimo e inserirsi  nella nascente burocrazia finanziaria del Regno.
Purtroppo però il clima di crescente separatezza non cessò, per cui nel 1492 si arrivò all'editto di espulsione anche in Sardegna. La "cacciata " degli Ebrei fu un fatto doloroso : Le sinagoghe vennero chiuse e sigillate, probabilmente in seguito trasformate in chiese; la maggior parte degli ebrei sardi emigrò verso la Francia meridionale e verso l'Oriente dove trovarono modo di inserirsi in altre comunità. Anche se molte delle famiglie ebraiche residenti nei nostri territori, come suddetto, avevano preferito abiurare riuscendo nel periodo successivo ad integrarsi nella società sarda, si chiuse così una positiva esperienza plurisecolare di convivenza.
(MG)