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venerdì 20 novembre 2020

Ospedale Psichiatrico di Sassari








A cura di Sassari Storia


Anche questa è storia della nostra città.
                                                                                                            

Ho trovato questa descrizione su l'ex ospedale psichiatrico di Rizzeddu. Molti di noi lo hanno conosciuto (non da ricoverati  !!!!!), per sentito dire o magari andando a giocare nel suo campo di calcio. 
Una triste realtà che fa parte dei ricordi di una Sassari che non c'è più. L’Ospedale psichiatrico di Rizzeddu a Sassari.

La testimonianza di un medico del ventennio ‘50-’70 di Maria Stefania Podda
Decidiamo di intraprendere un viaggio nell’impenetrabile, e forse per questo ancor più affascinante, storia del manicomio di Rizzeddu, con la testimonianza di uno dei suoi protagonisti, che per oltre vent’anni ha prestato lodevole servizio nella struttura. Erano gli anni cinquanta, precisamente il 1956, quando, all’età di 33 anni, Giuseppe Pacifico, medico psichiatra laureato all’Università di Sassari, approda all’ospedale di Rizzeddu dopo aver brillantemente superato un concorso. E vi rimarrà fino al 1978, anno in cui ottiene il trasferimento all’Ospedale civile.
Una vita dedita ai malati, e alla sperimentazione sul campo, quella del Dott. Pacifico, psichiatra della scuola pre-riforma, che alla carriera universitaria, caratterizzata peraltro da qualche screzio con l’allora Direttore del Dipartimento di Ricerca di Psichiatria, Prof. Rovasio, preferisce la strada della medicina applicata, a diretto contatto con i pazienti.

Una scelta coraggiosa, dunque, soprattutto perché in quegli anni, ci racconta, essere medico di manicomio richiedeva dedizione assoluta e grandi responsabilità, aggravate inoltre dalle precarie condizioni del sistema di cura, fortemente inadeguato rispetto alla portata delle richieste. Sul finire degli anni cinquanta, infatti, il manicomio ospitava ben 1200 pazienti, per i quali vi erano solo 6 medici in tutta la struttura. Il tempo dedicato al singolo paziente era perciò molto ristretto.
I malati, provenienti da tutta la Sardegna, e per lo più di estrazione sociale medio-bassa, arrivavano a Rizzeddu accompagnati dai parenti o dai Carabinieri, nella gran parte dei casi perché affetti da stato depressivo, peraltro comprensibile date le forti ristrettezze economiche e il grave disagio sociale di quegli anni, o perché considerati violenti, o semplicemente perché in forte stato di ubriachezza. Una volta entrati venivano poi suddivisi tra uomini e donne, e distribuiti rispettivamente in 7 e 6 reparti. Molti di loro facevano ingresso nella struttura, e vi rimanevano, nonostante venisse accertata la loro guarigione. I parenti rinunciavano spesso a riprendersi i familiari riabilitati, li abbandonavano alla solitudine generata dalla malattia, perché incapaci di affrontare il post-ricovero, anche a causa della mancanza di assistenza pubblica. In questo modo – ci spiega l’anziano medico – il manicomio svolgeva una duplice funzione: quella di luogo di cura, e al tempo stesso di recupero sociale, e sostegno alle famiglie. Erano perciò molto fortunati coloro che avevano dei parenti, che ogni tanto venivano in visita. Per gli altri invece, non c’erano contatti con l’esterno. Tra i casi umani più disparati, si trovavano storie di perdizione, e di abbandono alla malattia, ma anche forme di improvvisa “redenzione”, e di ritorno alla normalità.
Nel suo racconto Pacifico riporta il tragico caso di un paziente entrato all’età di 16-17 anni, senza mai uscire dalla struttura, e una vicenda dall’epilogo positivo, di un paziente di Oschiri, un certo *********, giunto nel ’70 e dimesso poco dopo, con il quale si è instaurato persino un rapporto di amicizia e di comunicazioni telefoniche a distanza di anni.
Sono tanti gli aneddoti e le rivelazioni sul mondo manicomiale che emergono da questa interessante testimonianza, tra queste la vicenda di un uomo che fece ingresso a causa del suo stato di ubriachezza, e che dichiarò di essere ambasciatore italiano a Oslo. L’episodio ha dell’assurdo, e persino del comico, data la dubbia credibilità del soggetto, che tutti credevano fosse in realtà un abitante di Osilo. Il misterovenne però risolto il giorno dopo, quando arrivò la notizia che confermava la dichiarazione del paziente. Era veramente l’ambasciatore italiano a Oslo.
Di episodi paradossali ne sono accaduti altri, ci racconta Dott. Pacifico, che pur senza entrare nel dettaglio, rimarca come in passato si entrasse in manicomio con una certa facilità. Tanti furono i ricoveri di “salvataggio”, molti dei quali dal dubbio fondamento medico, ma solo per sopperire all’abbandono da parte della società, alla miseria delle famiglie, e in periodi antecedenti, come quello fascista, per scopi politici. Quest’ultima tesi è confermata dal ritrovamento di oggetti posseduti dai malati, tra cui una vecchia tessera del Partito Comunista. In questa moltitudine di casi umani disperati, non sono mancati gli artisti, ospiti frequenti del Rizzeddu, come ci racconta Pacifico, e come testimoniato da documenti, oggetti e opere d’arte ritrovati. Tra questi il pittore P**** S****, entrato a Rizzeddu perché alcolista, al quale regalavano tele, pennelli, e persino qualche soldo per comprarsi il materiale; e un fotografo francese, del quale rimangono le tracce nelle foto recentemente ritrovate, e rese pubbliche nella mostra espositiva dal titolo “Uno sguardo ritrovato”.

L’enorme flusso di pazienti che giungevano nella struttura, generava forti problemi di sovraccarico, gestiti attraverso diversi passaggi. Pacifico ci dà una ricostruzione dettagliata dell’accoglienza dei malati, che in un primo momento arrivavano nel reparto di osservazione, dove venivano visitati dal medico di turno, e vi sostavano 15 gg per effettuare la diagnosi. Passato il reparto di osservazione, e individuata la diagnosi, si andava al proseguimento cura.
I violenti, gli agitati, erano i più pericolosi, e per eseguire su di loro il trattamento, si adottavano metodi estremi, talvolta si legavano nel letto, ma ci rassicura, non si ricorreva alla camicia di forza. In questi casi inoltre si praticava frequentemente l’elettroshock, ci racconta di averne fatti a migliaia. Nel difendere i metodi utilizzati, in particolare l’elettroshock, il Dott. Pacifico esclude che si tratti di un metodo violento, privo di risultati efficaci e duraturi. “Gli ammalati non sono tutti uguali” – commenta – “ho preso tanti schiaffi e pugni”, ma non per questo non sono riuscito a curarli, ricercando di volta in volta le soluzioni del caso. Pacifico considera il malato innanzitutto una persona, rifiutando così qualsiasi tentativo di omologazione delle cure, ritenendo indispensabile adottare il dialogo con i pazienti, studiare da vicino le patologie, e laddove possibile, personalizzare i trattamenti. Le sue dichiarazioni sono in accesa polemica con le metodologie moderne, che fondandosi sulla dissacrazione della medicina tradizionale, si sono tradotte in una condanna assoluta alle strutture manicomiali, e all’intero sistema di cura.

Se è vero che in passato si ricorreva con una certa frequenza all’elettroshock per curare i più differenti disturbi mentali, dalla schizofrenia, alla depressione, è pur vero secondo il medico, che l’introduzione dei medicinali, non ha certamente favorito una adeguata diversificazione dei rimedi terapeutici, generando al contrario un sovraccarico farmacologico, che non dà i risultati attesi, spesso per compiacere le grandi industrie farmaceutiche.
La testimonianza di Dott. Pacifico dunque, ci dà uno spaccato non solo della vita all’interno di una delle strutture più importanti per la cura dei malati con infermità mentali della Sardegna, ma va ben oltre, attraverso una lettura critica del cambiamento avvenuto nella medicina, a seguito della riforma Basaglia, ridando dignità alla struttura manicomiale, e ai metodi praticati, sia per fondate ragioni scientifiche, che per la funzione di assistenza e di sostegno sociale che assicurava. Questa insolita rappresentazione del manicomio, Pacifico la ricostruisce attraverso il racconto delle scene di vita collettiva, e dei rari momenti di festa e di convivialità, racchiusi nelle pellicole super 8, e nelle videocassette, gelosamente custodite nel suo archivio personale. Un medico-regista che amava immortalare quei pochi istanti di apparente spensieratezza, quasi a voler dimostrare all’esterno che il manicomio, non è soltanto luogo di sofferenza e disperazione umana, così come appare nell’immaginario collettivo, ma è anche spazio sociale, fatto di relazioni, di solidarietà, di recupero conviviale.

Quei filmati ci raccontano delle feste in maschera in occasione del Carnevale, delle gite al mare, delle celebrazioni religiose, in particolare quelle in onore di San Giuseppe, delle visite del Vescovo, del Prefetto, e di altre autorità civili. A questi momenti di vita collettiva partecipavano tutti, medici e infermieri, ma tra i pazienti vi prendevano parte solo coloro che non erano considerati pericolosi, o in gravi condizioni di salute. In questo modo si tentava di ricostruire all’interno dell’ambiente sociale del manicomio, momenti di normalità, che davano la percezione di vivere nel mondo esterno. Pacifico mostra con orgoglio questi filmati, che sappiamo, non sono certamente rappresentativi della vita all’interno della struttura, ma danno comunque un’idea della ricerca di evasione dalla condizione di disagio umano e di isolamento dalla società, che il manicomio di per sé generava. Un luogo autarchico, dotato persino di una improbabile autosufficienza economica. 

Nella vasta area che circondava la struttura ospedaliera, sorgevano infatti la colonia agricola, laboratori artigianali, piccole rivendite, che diventavano luogo di incontro fuori dall’ospedale. Una comunità, dunque, non più relegata alla particolare condizione di salute, ma resa autonoma, seppur racchiusa tra le mura del complesso manicomiale, in una rinnovata, o quantomeno insolita socialità. In questo angolo relazionale, si scardinavano i rapporti formali della quotidianità, tra personale medico, infermieri e pazienti, e tutti partecipavano agli esperimenti di scambio commerciale, e ai punti di ristoro, organizzati con strumenti di fortuna. 
Qualcuno dei pazienti, infatti, aveva persino messo su un servizio di caffetteria. Si trattava, come ci racconta Pacifico, di un giovane riabilitato, rimasto nella struttura perché senza una famiglia che lo potesse accogliere, che entrato in possesso di alcune caffettiere, aveva pensato di creare uno spazio-caffè. Dopo un po’ di tempo il ragazzo si toglie inaspettatamente la vita, lasciando sgomento tra gli altri pazienti e l’intero staff medico. Era il tipico caso di guarigione apparente, che come ci racconta Pacifico, era piuttosto frequente, così come erano frequenti le ricadute, soprattutto dello stato depressivo, generato a sua volta dal forte senso di abbandono.
Al termine del racconto emergono tanti elementi di riflessione, e alcuni dubbi di difficile risoluzione. Secondo l’anziano medico, l’aver chiuso i manicomi è stato senz’altro un errore, e averli sostituiti con i reparti di psichiatria degli ospedali, non ha facilitato l’intervento sui malati, e sulle problematiche sociali ad essi collegate. Oggi pertanto si assiste ad una difficoltà oggettiva nella cura dei disturbi mentali, e ancor di più nel reintegro dei malati nella società, e in particolare nelle famiglie, che oggi come allora, non vogliono accollarsi i problemi derivanti dalla presenza di soggetti affetti da infermità mentali. Lo scenario che si presenta è sempre lo stesso, i pazienti sono 

abbandonati alla solitudine della malattia, aggravata però dalla scarsa presenza di strutture pubbliche che li possano accogliere in via permanente, anche se rimane da sciogliere il dilemma sulla “umanità” della struttura manicomiale, che ingabbiava le persone e le costringeva ad un isolamento, che col passare del tempo rendeva gli individui interdetti al mondo esterno. Senza pretese risolutive, perciò, i dubbi incombono, e si scontrano con la realtà attuale, dove i problemi avanzano, e i rimedi appaiono insufficienti e inadeguati, per la gestione di quella che può essere definita una vera emergenza sociale.



Fotografie reperite nel web e tratte da - Antologia di " uno sguardo ritrovato" ( Fondazione Basaglia )

domenica 16 settembre 2018

( Soprannomi) E' pronto l'orologio?



A cura di Giuseppe Idile


Come promesso, altra storia di soprannomi sassaresi. Oggi è la volta di "E' pronto l'orologio". In tempo di guerra si fermavano le bombe, ma non gli INGIUGLI. La nostra Sassari aveva patito forse meno della vicina Cagliari, però si era fermata ugualmente. Non dimentichiamo che qualche fischio di bomba americana anche i Sassaresi lo sentirono. Molti cittadini durante la guerra erani IFFULLADI in campagna in quanto c’era meno rischio di bombardamenti, anche se dal 1943 in poi i rischi aumentarono notevolmente e tante attività chiusero i battenti perchè In città iniziava a regnare il terrore; qualcuno diceva chi l'Americani isciani da sottu terra. Resisteva Zuniari, lu Ridozzaggiu di Portha Sant’Antoni, accudiddu da un paese non precisato della Campania, parlava un dialetto sassarese misto al napoletano,  e aveva la sua bottega artigiana in Corso Vico, difronte alla stazione. Credo che di cognome, ironia della sorte, facesse Guerra. Eravamo circa a metà maggio del 1943, quando un boato squarciò l’aria. Una bomba da 500 chili di tritolo, sganciata da un aereo americano che aveva precedentemente sorvolato la città, cadde sopra la stazione, distruggendola parzialmente e causando la morte di tre persone. 

La bottega di Zuniari aveva due vetrine esterne che finirono in frantumi. La gente scappava e urlava per le strade e qualcuno si affacciò in bottega da Zuniari urlando... Ajò mapperò.. ancora inogghi sei? No fuggi no? Ajò Zelcha l'avviu Zunià... Ripresosi dallo spavento anche se un po' rintronato, pienu di carraggiu e di cazzina d'intonaggu faraddi da la bobidda a causa dello spostamento d'aria, il buon Zuniari rastrellò tutti gli orologi e tutta la mercanzia dalla bottega e scappò in direzione di casa. Nei giorni a seguire, assalito dalla paura di murì incarraggiaddu, come quei tre poveretti della stazione, decise suo malgrado di chiudere la buttrea per Guerra e si trasferì in fretta e furia con la sua famiglia a Zinziodda in una casa di campagna avuta in eredità dai suoceri, appartenente alla moglie e ai 2 cognati. Passarono gli anni e siamo nel 1946 -

Il conflitto era appena terminato. La città di Sassari pian pianino si risvegliava dal torpore dell’incertezza e della paura che l’aveva avvolta durante la guerra. Il popolo ritornò a nuova vita e la gente riprese a uscire per le strade, gli sfollati tornarono in città e ripresero a frequentare i bar che nel frattempo avevano riaperto i battenti. Anche il nostro Zuniari riaprì la sua bottega sempre in Corso Vico, ma in un altro caseggiato, in quanto il magazzino precedente, dopo la sua sparizione, era stato concesso in affitto a un artigiano odontotecnico. Fece ricostruire da lu masthru d’ascia le due vetrine esterne e riprese anche lui a svolgere la sua attività. Una mattina si presentò in negozio, un signore, del quale non ricordo il nome, distinto con cappello, occhiali da intellettuale e aria un po’ burbera e autoritaria, che secondo alcune indiscrezioni, lavorava come impiegato negli uffici del podestà, diventati poi prefettura. Il debutto senza saluto fu :

“ Allora… è pronto l’orologio "? Zuniari uscì dal retrobottega e alla vista del tale sbiancò. Ebbene si… quello era un suo cliente che prima dell’avvenimento bellico, aveva portato il suo orologio in riparazione. Chiaramente l’improvvisa chiusura e la scomparsa di Zuniari, il burbero la considerò una fregatura, un imbroglio perpetrato da un uomo poco affidabile. Zuniari invece era persona seria e sapeva benissimo di avere da qualche parte anche le mercanzie che avrebbe dovuto riparare a suo tempo. Infatti a zinziodda custodiva una cassapanca piena di merci, attrezzi vari e minutaglie del vecchio negozio. Rassicurò il burbero cliente, spiegando quali erano state le cause di forza maggiore della sparizione improvvisa, e lo rimandò ai giorni seguenti per restituire l’orologio riparato che aveva preso in consegna tre anni prima. La sera stessa Zuniari si recò a zinziodda ma non trovò l’orologio in questione. Era un orologio Svizzero di gran lusso che non tutti potevano permettersi e che costava molto caro; di Marca Universal modello Geneve Compax che aveva tre contatori sul quadrante, per farla breve un Rolex dell'epoca. . La Mattina si ripresentò in negozio il burbero, che sempre senza porgere alcun saluto pronunciò la solita frase: E’ pronto l’orologio? Il povero Zuniari prese tempo e promise che lo stava controllando a casa per la riparazione. 



Continuò a cercare anche a casa, ma dell’orologio non si trovava più traccia e intanto il burbero continuava a tallonare tutti i giorni in negozio a chiedere... E’ pronto l’orologio…. E’ pronto l’orologio… finchè un giorno alcuni ragazzini di Sant’Elisabetta, Pizzinni pizzoni, presenti in negozio a chiedere un' offerta per la festa della madonna, assistettero alla solita scena del “E’ pronto l’orologio. Zuniari liquidò con pochi spiccioli i ragazzini e affrontò una volta per tutte lo spazientito burbero cliente; gli disse a chiare lettere: il suo orologio è stato smarrito, io provvederò a comprarne uno nuovo e la risarcirò, però non si presenti mai più in negozio con questo modo di fare che indispone, ricordando all’energumeno, che la chiusura del precedente laboratorio era dovuta agli eventi bellici e non a una fuga d'amore nei paesi felici. In seguito ala sfuriata di Zuniari, Il burbero, dopo aver attappaddu la janna, uscì dal negozio innervosito, indispettito e con passo svelto si avviò verso la stazione.    



 Intanto i ragazzini si erano radunati sotto i portici della casa daziale che, se non vado errando, aveva una stanza occupata dall’intergremio. Favoriti dalla copertura delle carrozze e dei cavalli in sosta nello spiazzo antistante, al passaggio del burbero li pizzinni pizzoni, iniziarono a urlare a ripetizione in segno di scherno “ E’ pronto l’orologio?? E’ pronto l’orologio???” Il malcapitato per un attimo si fermò stizzito e con faccia rabbiosa iniziò una sorta di rimprovero all'indirizzo dei ragazzini che nel frattempo se l’erano data a gambe, ma i carrozzieri iniziarono a ridere a zoccu e ridendo ridendo qualcuno ripetè anche la scomoda frase ( E' pronto l'orologio? ) E fu così che nei giorni a seguire iniziò a girare la voce che il tal dei tali si chiamava “E’ pronto l’orologio” Alla fine l’ingiugliu si spostò anche ai parenti, fratelli, sorelle figli e quant’altro. Quando si parlava di loro, si diceva… Chissi di …E’ pronto l’orologio. Probabilmente il Burbero rientrò in possesso del suo orologio, ma a quale prezzo? Con i soprannomi , Sassari non faceva sconti a nessuno.

Scritta da (Capitano - Giuseppe Idile) che si raccomanda di prendere i nomi a beneficio d'inventario perchè non è sicuro dell'esatezza, mentre la storia è vera ed è stata tramandata da suo padre ( nella foto alla stazione nel 1946 è il signore al centro) che l'ha vissuta realmente. Chi è sassarese sicuramente la conosce e si ricorderà del triste evento della bomba e della guerra.


domenica 21 agosto 2016

Rimaniamo in tema di musica. Quella delle origini. Quella importante.


A cura di : Giuseppe Idile



Un Grande Sardo Repubblicano.

Per sviluppare questo interessante argomento dedicato al padre dell'Inno ufficiale della Repubblica Italiana, ci pare doveroso iniziare con qualche notizia relativa ai suoi antenati.

Mameli: famiglia ogliastrina (Secc. XVII - XX). Le prime notizie risalgono alla seconda metà del diciassettesimo secolo; i suoi componenti esercitavano tradizionalmente la professione di notaio e diedero vita a diversi rami la cui genealogia è alquanto difficile da ricostruire. In particolare sono due i rami della famiglia da ricordare, entrambi provenienti da uno stesso in comune antenato originario di Arzana.

Il primo ramo continuò a risiedere in Ogliastra - precisamente a Lanusei - continuando la tradizione nell'esercitare l'attività notarile; ha espresso alcune notevoli personalità, una delle quali è il ministro Cristoforo Mameli, tuttora la discendenza è radicata a Lanusei.

Goffredo Mameli, simbolo del patriottismo italiano - Diritto di ...Il secondo ramo discende da un Giovanni Maria che agli inizi del XVIII secolo, divenuto segretario di Carlo d'Asburgo, fu investito di titolo nobiliare. I suoi discendenti dal 1784 ebbero il riconoscimento del cavalierato ereditario e della nobiltà isolana e si stabilirono a Cagliari. Da qui, agli inizi del XIX secolo, si trasferirono a Genova dove nacque, appunto Goffredo. Si estinsero agli inizi del ventesimo secolo.

Entrando nel vivo dell'argomento dedicato al nostro celebre patriota GOFFREDO, come già scritto, nacque a Genova nel 1827 (mori a Roma nel 1849), il padre si chiamava GIORGIO (Giorgio Mameli fu militare e uomo politico /nato a Lanusei nel 1798 e morto a Genova nel 1871/; deputato al parlamento subalpino; Ufficiale della MARINA SARDA si segnalò durante la guerra che questa condusse contro i pirati nordafricani e percorse una brillante carriera giungendo al grado di vice-ammiraglio. Stabilitosi a Genova sposò una Zoagli, dall'unione con la quale nacque, appunto, il nostro poeta; bene inserito nella società genovese, fu eletto deputato per la II legislatura subalpina in uno dei collegi della città ligure, ma per la prima era stato eletto nel collegio della sua città natale che, q quanto pare, da alcune fonti, fosse Cagliari. Dopo la morte gloriosa del figli, con il sostegno della sinistra fu eletto ancora deputato per la V legislatura in uno dei collegi della stessa Cagliari, ma nel 1854 si ritirò a vita privata dedicandosi allo studio della storia della Marina Militare.

Tornando a Goffredo: egli era di idee repubblicane, dopo aver combattuto valorosamente nella prima guerra di indipendenza abbandonò gli studi universitari, alla testa di un manipolo di compagni genovesi, accorse a fianco di Garibaldi alla difesa della Repubblica Romana. In quell'occasione conobbe Mazzini che gli ispirò l'inno militare, più tardi musicato da Giuseppe Verdi.

Goffredo morì a Roma per le ferite riportate in combattimento sul Gianicolo.

E' autore di numerosi componimenti poetici di carattere patriottico, tra cui quello più celebre che è l' Inno degli Italiani "FRATELLI D'ITALIA" composto nel novembre del 1847, musicato dal Novaro.


LIGURIA E DINTORNI | Mameli, il genovese che scrisse Fratelli d ...

sabato 9 aprile 2016

Personaggi sassaresi Salvator Ruyu.




                                                                                                                        



Salvator Ruyu (alias Angniru Canu)

"E' nato a Sassari nel 1878 e ivi è morto nel 1966). 

Era un letterato e poeta ed ha iniziato i suoi studi a Sassari laureandosi in Legge, dopo di ché prosegui gli studi presso la facoltà di Lettere di Roma, dove fu aiutato da Grazia Deledda, che godeva di Lui una gran stima, ad inserirsi negli ambienti letterari della "Cronaca Bizantina" di Angelo Sommaruga. 

Ha iniziato giovanissimo (nel 1902) con la raccolta di versi < A vent'anni > e con <il Canto d' Ichnusa > che venne edito in occasione della posa, sul monte Ortobene di Nuoro, della statua di Cristo Redentore. Alcune parti del poemetto < L'eroe cieco, pubblicate dalla "Rivista Sarda" nel 1919, lo resero apprezzato a livello nazionale conquistando, perfino, le lodi del D'Annunzio, 


Rientrato a Sassari si impegno nell'insegnamento presso istituti superiori, senza trascurare l'ambito giornalistico: fu in modo particolare apprezzata la sua opera di curatore della pagina letteraria del giornale cittadino "L'ISOLA", che fece diventare esperienza per i giovani scrittori e poeti isolani. Fu così

allora che, nel 1928, cominciò a pubblicare, utilizzando lo pseudonimo di AGNIRU CANU, poesie in vernacolo sassarese che apparirono sull' ISOLA e, nel secondo dopoguerra, su LA NUOVA SARDEGNA, tutte in seguito raccolte nei volumi Agniureddu e Sassari véccia e noba.











Con Agniureddu e Rusina è nato il personaggio di Agniru Canu:


è un giovane contadino, dalla personalità ,creatasi pian piano, che racconta la realtà, mai nascosta, ma anzi sempre messa in rilievo, delle origini e dei rapporti con la terra sarda.
Agniureddu e Rusina è un poemetto d'amore, mentre Sassari veccia e noba rappresenta, come il poeta le vive, pur nella mitizzazione dei tempi passati e da lui vissuti durante la sua infanzia, le realtà sassaresi."


venerdì 19 febbraio 2016

Il “tesoro di Tomè”

Sassari


Il “tesoro di Tomè” fu donato alla città che merita di vederlo


Oltre ai gioielli e ai preziosi, nel lascito del commerciante c’è una interessante collezione di opere d’arte che il Comune dovrebbe custodire al Canopoleno
La notizia, già conosciuta da parecchi (come minimo da alcune generazioni di amministratori comunali), del piccolo tesoro in gioielli e preziosi lasciato al Comune dal commendator Angelo Tomè serve a due cose: la prima è ricordare un sassarese che molto amò la sua città e molto fu amato, per la sua bonomia e il suo senso dell’humour che nulla aveva da invidiare a quello di qualunque altro sassarese doc; la seconda è come realizzare la proposta più ovvia, in casi come questo, di poterlo vedere da vicino, questo tesoro (che oltre tutto comprende una interessante collezione di opere d’arte che dovrebbe essere custodita al Canopoleno con le collezioni comunali): e di poterlo vedere da vicino tutti i cittadini, ai quali il donatore ha voluto lasciarlo.
I Tomè dovrebbero essere arrivati a Sassari intorno alla metà dell’Ottocento, se è vero che – a stare al Costa – in quel momento non erano ancora conosciuti come commecianti. Costa cita invece i Rogliani, i Debernardi e i Noce, tutti, soprattutto i primi due, praticamente scomparsi dalla memoria dei sassaresi. Ma nella seconda edizione del suo “Sassari”, uscita nel 1909, poteva scrivere che, mentre molti di queste sartorie erano sparite soppiantate da negozi che vendevano abiti già fatti, le più eleganti e rinomate sartorie del suo tempo erano quelle dei fratelli Ferrucci e di Tomè, aggiungendo che quest’ultimo occupava il piano terreno del moderno Palazzo delle Finanze, appena costruito in quella che sarebbe stata poi via Luzzatti. Alla fine dell’Ottocento il negozio godeva fama di usare particolari facilitazioni ai giovani sassaresi o agli studenti che frequentavano Sassari, anche se non era infrequente che qualcuno di loro avesse poi problemi a onorare il suo debito. Lo stesso Sebastiano Satta, studente universitario a Sassari, ci ha lasciato un famoso epigramma che dice: “Quanto Tomè mi vede / tremo da capo a piedi. / Quand’io vedo Tomè / tremo da capo a piè”.
I Ferrovieri. Che nostalgia, passando in via Porcellana, il grande velo che copre la facciata del Palazzo dei ferrovieri, evidentemente in via di una rinfrescata. Era, tanti
anni fa, uno dei più imponenti di Sassari. Sul suo grande cortile intero si affacciava “La provvida”, una cooperativa di consumo certamente, allora, all’avanguardia, circondata dalla fama di sovversivi che avevano (e spesso a ragione) i lavoratori che vi abitavano. Onore alla loro memoria.

domenica 1 febbraio 2015

LIBERO MELEDINA .


LIBERO MELEDINA .
La sua arte resterà viva per sempre.
Il Professor L. Meledina è nato a Sassari nel 1918, ha frequentato l’Istituto d’Arte cittadino e in seguito si è trasferito a Milano dove ha completato la sua formazione artistica presso l’Accademia di Brera e precisamente presso la scuola di Marino Marini e di Pio Semeghini.

Il pittore sassarese rientrato in Sardegna si è imposto per le grandi qualità e per la padronanza dei mezzi tecnici negli anni in cui, nell’immediato dopoguerra, si andava affermando nell’ isola il realismo. Animato da una sincera passione sociale può essere considerato il capo-scuola del realismo isolano. Pure attento ad  un altra vena, fantastica e ricca di visione, che lo avvicina ai turbamenti esistenziali di Mauro Manca , hanno scritto Giuliana Altea e Marco Magnani, < è comunque la via del realismo quella che l’Artista percorre con maggior coerenza e felicità di risultati: oltre che nelle composizioni di figura nelle succose nature morte di frutta, fiori e di barattoli accartocciati e corrosi tolti alla bottega del padre decoratore, e nei ritratti che negli anni Quaranta costituiscono, a sentire Tavolara, la sua produzione più importante . Libero Meledina ha preso parte a numerose mostre in Italia e all’ estero.

Molte delle sue opere figurano in musei e collezioni di diverse città d’Italia. Mentre ancora numerosi sassaresi attendono un riconoscimento ufficiale da parte degli Amministratori cittadini, come per esempio l'affissione di una una targa a fianco di quel portone del palazzo di Via Roma (in Sassari), in cui è sito l’appartamento dove il pittore ha vissuto ed è morto nel 1995, noi di Sassari Storia oggi intendiamo ricordare il pregio ed il lustro che questo Artista ha significato per la nostra Città.
(RICORDIAMOLO INSIEME)
Ciao Libero, grazie.
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lunedì 29 dicembre 2014

AZUNI - DI Giovanna Sale




Cenni storici: 
Prof/ssa Giovanna Sale






Questo fu il primo monumento innalzato in Sassari in onore di un cittadino illustre; venne ideato nel periodo precedente l'epidemia di colera che travagliò la città nel 1855(morirono più di cinquemila abitanti su una popolazione censita di venticinquemila), il monumento sorse - per iniziativa delle autorità civiche, dei rappresentanti l'alta cultura nonché della gioventù studentesca - 
al centro della piccola piazza di forma triangolare laddove si era resa disponibile l'area in seguito dell'abbattimento della chiesa di Santa Caterina ,allorché ritenuta decadente e malsana, avvenuto nel 1857. Ad un discreto scultore di Genova (tal RUBATO) venne commissionata la realizzazione del marmo commemorativo che venne scoperto il 13 agosto del 1858; luccicò così l'epigrafe:
PER IMPULSO
DELLA GIOVENTU' STUDENTESCA
DIRETTA DA DETTA COMMISSIONE,
CONFORTATO DA PUBBLICHE
PRIVATE OFFERTE
(QMS -questo monum. sorse) Q. M. S.

Ed ecco, così, che la statua di D. A. Azuni da allora occupò lo spazio di quella piazzetta che, per la sua forma, ricorda la prua di un mercantile che segue la rotta in direzione di Porto Torres.

domenica 19 ottobre 2014

"IL CONTE DI MORIANA"








A cura di :   Sassari storia




Questo ritratto (si tratta di olio su tela- di proprietà del Convitto Nazionale Canopoleno) ad opera di un ignoto pittore, ha immortalato Placido Benedetto di Savoia Conte di Moriana. Nacque a Torino nel 1776(morto nel 1802) era il dodicesimo nato da Vittorio Amedeo III; fratello di Carlo Emanuele IV, di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice: Era giunto, nel 1779, nella nostra isola al seguto della Famiglia Reale: In Sardegna fu  fu nominato Commissario Generale della Cavalleria Miliziana e successivamente Governatore di SASSARI dove promosse  le arti assegnando pensioni dalla propria cassa per chi, sardo, si recasse  a studiare nel continente; regalò anche moltissimi libri all'Università.
Il 29 ottobre del 1802, morì improvvisamente , dopo aver presenziato alla processione di San Gavino tenuta dalla Confraternita dell'Orazione e Morte di San Giacomo nel Duomo sassarese. Fu sepellito proprio in San Nicola dove, nel 1807, Carlo Felice gli fece erigere un monumento dallo scultore F. Festa.




mercoledì 1 ottobre 2014

AVVOCATO MICHELE ABOZZI.






A CURA DI  GIANMARCO DIANA

Michele Abozzi avvocato e uomo politico nacque a Sassari nel 1856 e ivi morì nel 1946. 

Completati gli studi universitari esercitò la professione di avvocato interessandosi, nel contempo alla vita politica della città; era di idee liberali, fu eletto consigliere e assessore del comune sassarese dal 1885 al 1887. Legatosi a Francesco Cocco Ortu, leader in Sardegna del gruppo Giolittiano, fu avversario politico di Filippo Garavetti. Nel 1904 venne eletto deputato per la ventiduesima legislatura (fu anche Presidente della Provincia di Sassari dal 1905 al 1909). Eletto ancora deputato per le altre due tornate legislative fino al 1919, prese assidua parte ai lavori parlamentari, interessandosi in prevalenza, alle problematiche economiche dell'isola.
Nel 1921, allorché venne adottato dal Parlamento il sistema proporzionale e venne istituito in Sardegna un collegio elettorale, non accettò più la candidatura e riprese la sua attività forense, ma tenendosi sempre in contatto con Giolitti(che morì nel 1928) e adotto un atteggiamento di distacco dal fascismo.




domenica 21 settembre 2014

"IL MARCHESE DI SUNI"


A CURA DI MARIO GRIMALDI











Con questo eccellente ritratto, opera di Mario Paglietti, è stato immortalato NICOLO' PALIACHO' (poi PALICI) di Suni, nato a Sassari nel 1886 figlio primogenito del Marchese della Planargia Ammiraglio Don Gavino (e di donna Concetta Mele), Conte di Sindia vivente il padre e poi Marchese della Planargia. Tale titolo gli venne contestato di cugini Cugia di Sant'Orsola che lo rivendicavano proprio. Nell'attesa che la vertenza si chiudesse il Re concesse a Don Nicolò il titolo di "MARCHESE DI SUNI", che più tardi, ottenuto il riconoscimento dei titoli della Planargia e di Sindia venne tramutato in predicato nominale. Contestualmente l'antico cognome Paliachiò venne modificato in Palici o meglio in Palici di Suni. Con questo cognome egli e i suoi discendendi erano e sono noti a SASSARI.


Don Nicolò svolse l'avvocatura ma fù anche impegnato nell' attività industriale in società col cognato Don Antonio Ledà d' Ittiri.
Nel servire la patria fu ufficiale di complemento (forse cavalleria), di idee liberali e notoriamente generoso e della sua generosità usufrui tantissimo un suo attendente che fece stabilire a SASSARI investendolo di un importante ruolo lavorativo presso "IL CIRCOLO SASSARESE" del quale fu per moltissimo tempo il Presidente.
Sassari lo vide sposo di Donna Vincenza Ledà Toufany dei Conti di Ittiri dalla quale ebbe cinque figli. E' morto a Sassari, dove è sepolto nella Capella di famiglia nel cimitero monumentale, nel 1939. Fu un uomo energico dall'espressione grave e austera.
(da una recensione di Mario Grimaldi).Don Nicolò svolse l'avvocatura ma fù anche impegnato nell' attività industriale in società col cognato Don Antonio Ledà d' Ittiri.
Nel servire la patria fu ufficiale di complemento (forse cavalleria), di idee liberali e notoriamente generoso e della sua generosità usufrui tantissimo un suo attendente che fece stabilire a SASSARI investendolo di un importante ruolo lavorativo presso "IL CIRCOLO SASSARESE" del quale fu per moltissimo tempo il Presidente.
Sassari lo vide sposo di Donna Vincenza Ledà Toufany dei Conti di Ittiri dalla quale ebbe cinque figli. E' morto a Sassari, dove è sepolto nella Capella di famiglia nel cimitero monumentale, nel 1939. Fu un uomo energico dall'espressione grave e austera.
(da una recensione di Mario Grimaldi).
Don Nicolò svolse l'avvocatura ma fù anche impegnato nell' attività industriale in società col cognato Don Antonio Ledà d' Ittiri.
Nel servire la patria fu ufficiale di complemento (forse cavalleria), di idee liberali e notoriamente generoso e della sua generosità usufrui tantissimo un suo attendente che fece stabilire a SASSARI investendolo di un importante ruolo lavorativo presso "IL CIRCOLO SASSARESE" del quale fu per moltissimo tempo il Presidente.
Sassari lo vide sposo di Donna Vincenza Ledà Toufany dei Conti di Ittiri dalla quale ebbe cinque figli. E' morto a Sassari, dove è sepolto nella Capella di famiglia nel cimitero monumentale, nel 1939. Fu un uomo energico dall'espressione grave e austera.
(da una recensione di Mario Grimaldi).




giovedì 18 settembre 2014

Don Simone Deliperi - Sassari -


A CURA DI: Mario Grimaldi.




La  discendenza  dei DELIPERI può esser tracciata a partire da Vincenzo e Simone (germani), che vissero nella prima meta del millecinquecento, ognuno di essi fu l'iniziatore dei due rami nei quali si divise la famiglia.
I due fratelli che diedero origine alle due genealogie erano Simone e Vincenzo:
SIMONE che fu giurato in Sassari nel 1537 era padre di due figli, il primo si chiamava Francesco che sposò una De La Bronda (la discendenza di questo si estinse nel diciassettesimo secolo); il secondo era Simone II sposato con una Paliacio. I suoi discendenti furono fregiati del cavalierato ereditario nel 1559 e ottennero la nobiltà nel 1600. Durante lo scorrere dei secoli costituirono altri rami, vivendo principalmente a Sassari, in quel di Bonorva ma anche in altri paesi.

VINCENZO il suo ramo fu il primo di quelli feudali familiari.; ebbe un altro figlio che si chiamava, anch'esso Vincenzo (i discendenti di questo si trasferirono a Cagliari e vi rimasero fino alla morte dell'ultimo col quale si estinse il ceppo). 
Il secondo era Andrea che fu l'iniziatore dei DELIPERI GODIANO.
Il terzo, Giovanni che rimase a Sassari (nel 1599 cavaliere e nel 1600 nobile); uno dei suoi figli chiamato Cristoforo sposò una CASTELVì' , ereditò la baronia di Sorso ma la sua discendenza si estinse nella prima metà del secolo diciassettesimo. 
Allora il ramo discendente da VINCENZO, durante il corrente sec. XVII , si arrogò il diritto della successione scatenando una intricata vertenza giudiziaria. Andrea continuò a risiedere a Sassari e i uoi nipoti nel 1630 ottennero il riconoscimento del titolo nobiliare: da uno di loro, quel Gavino, si ebbe la discendenza diretta di MARIA TERESA (era ricchissima), che nel 1789 ebbe in possesso il marchesato di Busachi., feudo che venne acquistato per la somma di 66.000 scudi sardi; versò in contanti la metà dell'importo ma dopo alcuni anni non fu più in grado di onorare le successive rate ed il fisco reale provvide all'avio dell'iter per la confisca del tutto. Ma la marchesa , che nel frattempo era convolata a nozze con Stefano Ledà, ebbe a resistere nel giudizio finché, nel 1800 raggiunse un accordo con il quale cedette al fisco una parte del feudo:
(Dovette cedere Fordongianus e Villanova Truschedu ma conservò il titolo e Busachi).