venerdì 24 ottobre 2014

"L'ULTIMA REGINA DI TORRES"


A CURA DI Antonietta Uras



"L'ULTIMA REGINA DI TORRES " - 
(Armando Curcio Editore)


Nata intorno al mille come villaggio, chiamato Jordi de Sassaro, quando gli abitanti dell'antica Thurris, stanchi delle frequenti incursioni piratesche, si erano rifugiati nell'entroterra,Thathari si era via via accresciuta, fino a divenire la grande Civitas Turritana. Alla sua veloce espansione contribuì l'afflusso di popolazioni dalle limitrofe terre della Romanja, dalla Nurra e dal regno di Gallura, favorito dal proliferare di scambi commerciali sia con la vicina Corsica che con le Repubbliche Marinare di Genova e Pisa.
La ormai popolosa città, divenuta sede giudicale, nonché arcivescovile, si attestò quindi come capitale del Capo di Sopra, in contrapposizione a Kalaris, capoluogo del Capo di Sotto dell'isola Sarda.
Sorto fra dolci colline calcaree e vallate feconde di acque sorgive, rivestite da fitte selve, l'abitato si snodava attraverso un dedalo di strette viuzze, simili alle calli veneziane, che serpeggiavano intorno al nucleo centrale, costituito dalla chiesa parrocchiale, aprendosi in piccole, raccolte corti. Le casupole erano addossate le une alle altre, spesso sorrette da piccole arcate.
Il repentino accrescersi dell'agglomerato urbano dettò l'esigenza di racchiuderne i confini entro una cerchia di mura custodite, che forniva sufficienti garanzie di sicurezza ai ricchi mercanti e agli artigiani, in gran parte Pisani e Genovesi, che vi si erano insediati stabilmente.
Le mura erano intervallate da trentasei torri, costruite in maniera accurata, con mattoni ben squadrati e malta di buona qualità, per ovviare alla fragilità del materiale disponibile, cioè il tufo, pietra assai friabile. Le torri si elevavano per tre livelli, più una terrazza soprastante, protetta da parapetti, intervallati da strette feritoie e merlature squadrate.
La città era custodita dalla “Scolca”, un manipolo di guardie armate. Tutti i cittadini, dai sedici ai sessanta anni, potevano farne parte a turno, dopo aver prestato un solenne giuramento. Alla presenza degli Anziani, o Maggiori di Quartiere, giuravano di “ far la Guardia delle Mura, in buona fede, senza frode, senza guardare a odio, amore o guadagno alcuno, secundu sa usanza antiqua”.
Le Porte si aprivano all'alba e venivano chiuse all'Avemaria. Le chiavi venivano affidate, a turno, ad una famiglia di Thatharesi, che doveva essere residente nella città da almeno tre generazioni.
(Nota: tale requisito diede origine all'appellativo “Sassaresu in chiabi”, letteralmente “Sassarese in chiave”, per indicare un sassarese verace.) Per la manutenzione delle mura, i cittadini erano tenuti a versare una tassa annuale. Gli stranieri potevano accedere alla Civitas soltanto dopo aver pagato un pedaggio.
I confini della città, all'epoca ancora in parte circoscritta da alte palizzate in legno, erano delimitati, a nordest dal Fosso della Noce, conca ricoperta da una folta boscaglia;
da nord fino a ovest, la terra digradava verso il mare, attraverso la Piana della Nurra, congiungendosi con il mare dell'Alghiera, con la Marina di Platamona, il porto e la città abbandonata di Thurris, fino all'estremo nord con la penisola dell'Asinara, così chiamata per la presenza di piccoli asinelli bianchi;
a sud est il confine naturale era rappresentato dai rilievi Logudoresi e ad ovest dal Rio Mannu “di Sopra”, (esistono diversi fiumi in Sardegna con la stessa denominazione), che attraversando la Nurra, tracciava i limiti fra la Nurra Vicina, a levante e la Nurra Lontana, a ponente.
La fertile Nurra Vicina, era ricca di fitte boscaglie, tant'e' che numerosi dei suoi alberi secolari vennero impiegati per la costruzione delle altissime capriate lignee nella basilica di San Gavino, a Thurris.
Le selve erano intervallate da piccoli villaggi e coltivazioni di ulivi, viti, cereali e verzure varie.
La Nurra lontana, ben più estesa e quasi disabitata, era terra di ampi pascoli, costellati dai Cuiles dei pastori.
A ponente della città si trovava una pianura boscosa, delimitata da una corona di colli, il più elevato dei quali era il Monte Oro

Adelasia, con la sua scorta di armigeri e un modesto seguito, giunse alla città da levante, discendendo uno scosceso sentiero sul crinale del Monte Rosello, chiamato per tale ragione “Scala Mala”, che sbucava nella verde vallata del Rosello.
Presso una sorgente l'acqua scrosciava gorgogliante da diverse fonti, dove sostavano numerosi asinelli, sul cui dorso gli acquaioli appendevano, in apposite tasche delle capienti bisacce, le brocche colme che avrebbero poi venduto di casa in casa. Giocosi fanciulli, accigliati servi e vocianti popolane, assiepati in chiassose, disordinate file, attendevano il proprio turno per approvvigionarsi delle quotidiane scorte idriche. Le lavandaie, dalle mani gonfie e livide, tuffavano i panni nei vasconi di pietra, li torcevano e li sbattevano, prima di ammucchiarli sulle ceste, parlando, ridendo o altercando incessantemente fra loro.
Il corteo si inerpicò nel viottolo che risaliva la valle, superò la Porta Gurusèle, costeggiata da un fossato, oltrepassò uno slargo, ingombro di carri colmi di mercanzie, per inboccare la Isthrinta di Ruseddu, una lunga e stretta via che confluiva nella Ruda de Codina. Poco distante era ubicato il palazzo reale. Attigua ad esso sorgeva la bella chiesa romanica di Santa Caterina ( nota: edifici oggi inesistenti.)
Al suono del tamburo, preceduto dal gonfalone di Torres, la gente si fermava, facendo ala spontaneamente, per osservare il corteo con lunghe occhiate curiose, che lungi dal manifestare deferenza, palesavano perfino una certa sfrontatezza.
La trafficata strada maestra, scavata nella rocca (codina) alla quale doveva il suo nome, era molto ampia e fiancheggiata da torri, maestosi palazzi ed eleganti loggiati. Sotto di essi i mercanti, in massima parte Pisani e Genovesi, ma anche Corsi e Provenzali, esponevano le loro preziose merci. Nobildonne, servi e nullafacenti si affollavano intorno ai banchi, in un baillame di chiasso e colori, come in tutti i mercati...