mercoledì 16 dicembre 2015

Gegia e il Natale - di Elisa Casu




A cura di  -  Elisa Casu 


Gegia e il Natale
                       


“Eh tiu Michelinu, tiu Michelinu”, sospirava preoccupato il medico condotto del paese mentre osservava la colonnina di mercurio che si fermava sempre troppo in alto misurando una pressione arteriosa non proprio bassa. Si tolse cosi il fonendoscopio dalle orecchie e serio in volto guardava prima il vecchio e poi la moglie, Tia Buciana. L’uomo al contrario del dottore appariva rilassato, anzi contento tra un singhiozzo e l’altro, traccia del suo cannonau preferito, quello regalatogli da compare Attiliu. Tia Buciana se lo guardava a labbra serrate e occhi chiusi, quasi grugnendo e premendo le flaccide e bianche braccia sui corposi fianchi sibilò:“Micheli’ una cosa ti naro o lassasa sa tazza o a Natale abberimusu prima a Gegia e a daboi a tie” ( Bada a te, ti dico di stare attento, lascia il vino, altrimenti a Natale ammazziamo te e la scrofa). E cosi dicendo voltava le spalle al vecchio sdraiato ancora con gli scarponi sopra il copriletto matrimoniale , riprendendo a impastare il pane sopra la mesa ( tavolo) in cucina.

Insomma da quel giorno i destini di Tiu Michelinu e della scrofa di casa, Gegia per l’appunto rischiavano seriamente di incrociarsi.
Si avvicinava ormai il Natale e l’attenzione verso la povera Gegia cresceva sempre di più, le razioni del mangiare aumentavano e lei mentre Tia Buciana rovesciava le bucce di patate e gli avanzi di carne dal secchio, arricciava contenta il suo codino rosa, convinta dei buoni sentimenti dei suoi padroni verso di lei. Dalla visita del dottore Tiu Michelinu si era impegnato, sotto giuramento, a sollevare meno bicchierini di vino verso la bocca. Tia Buciana iniziava a essere soddisfatta di lui, a volte gli faceva tenerezza. Lo osservava mentre andava a trovare Gegia, all’inizio un po’ moscio, ma poi osservava con soddisfazione che l’uomo ogni volta che tornava dalla porcilaia era sempre più contento, anche il colorito del viso era sempre più acceso e tia Buciana iniziava a mettere da parte i suoi sensi di colpa.
L’affetto di tiu Michelinu per Gegia cresceva a tal punto che una notte non torno’ proprio dalla visita al maiale. Tia Bucina rigirandosi nel letto si accorse del cuscino vuoto di Tiu Michelinu e spaventata usci fuori in vestaglia.
“Sant’Antoni meu, eh itte è suzzessu, coro meu!”( Cuore mio, cosa è accaduto?) e gridava: “ Micheli. Micheli” ma niente, silenzio assoluto. 
Col forcone in mano si decise a raggiungere Gegia, e cosa vide quando entrò nel fienile sotto la tettoia della porcilaia: Gegia addormentata beatamente e a fianco a lei Tiu Michelinu bello rilassato con a fianco un piccolo fiasco di vino. Non vi voglio annoiare nel descrivervi i particolari della scena che ne segui, sappiate solo che dalla casa si intravedevano sotto il chiarore della luna Tia Buciana col forcone che inseguiva un Tiu Michelinu che provava, senza riuscirci a fuggire dalla moglie.
Arrivò il giorno della festa di Gegia, Tia Buciana diede a Tiu Michelinu e compare Attilio il piatto in ferro smaltato bianco e i coltelli per dare il ben servito alla povera Gegia. Tiu Michelinu sospirava ma l’idea di una buona salsiccia al finocchietto selvatico e del gustoso pane untinadu sembrava lo tirassero su di morale anche se ormai era diventato un grande amico di Gegia.
Il giorno di Natale, l’uomo e la sua famiglia apprezzarono la croccante carne di maiale e il profumo faceva sostare i cani fuori dalla porta speranzosi di mangiare anche loro dal lauto banchetto.
Tia Buciana si guardò il marito e pensò: però meno male fit dippiaghidu pro Gegia ( meno male era dispiaciuto per Gegia), e sorrise guardando i pochi denti di Tiu Michelinu che affondavano nella cotenna croccante del maiale arrosto.
GEGIA
Dopo Natale ogni giorno Tiu Michelinu andava a trovare compare Attiliu, sotto l’occhio vigile di Tia Buciana. E appariva contento, e contenta era anche la scrofa di tiu Attiliu che arricciava il codino ogni volta che lo vedeva. Tiu Michelinu aveva il permesso di compare Attiliu, di occuparsi della scrofa, anche perché in realtà Tiu Michelinu l’aveva pagata a suon di soldoni (di nascosto) a Tia Buciana, o meglio aveva comprato la scrofa di Compare, Gisella passandola per Gegia, che contenta aspettava ogni giorno il suo padrone. La scrofa era contenta di aver superato il Natale e Tiu Michelinu felice di poter gustare di nascosto del vino messo generosamente a disposizione da Compare Attiliu, tenuto ben nascosto dietro la porcilaia, e poter cosi brindare che il destino suo e della scrofa si fossero incontrati oltre ogni nefasta previsione.        
           

venerdì 4 dicembre 2015

LA GIOVANE AMAZZONE


A CURA DI: Elisa Casu
                                       

Narrare la Sardegna




La ragazza osservava incantata il luccichio del suo uncinetto che nervosamente infilava e sfilava tra le rade maglie della sciarpa di lana che stava ultimando, luccichio che ricordava tanto uno spiritello saltellante che stregava l’atmosfera tutto intorno al camino. Era l’unico momento di riposo che la giovane si concedeva la sera, fermando il tempo delle faccende domestiche e del lavoro sui campi, sempre inchinata a raccogliere i frutti della terra colorati dal sole e coperti dalla polvere, ormai turgidi e maturi al tatto delle sue delicate mani.
Ogni giorno al ritorno dalla campagna l’aspettava l’odiata scopa, il tinozzo con l’acqua mischiata all’aceto per disinfettare e profumare la grande stanza del casolare di campagna. Ma la casa era la sua prigione, era assai felice infatti quando stava all’aperto, anche al freddo e al gelo, poco importava. Era bramosa di respirare l’aria frizzante che arrivava dalle montagne appena innevate del Gennargentu.
Questo era il suo paradiso, una vecchia panca posta a fianco della porta di legno della casa, luogo privilegiato da cui contemplare l’immenso panorama della vallata che si apriva ai suoi occhi, che dava ad un certo punto finalmente spazio alle colline che leste si arrampicavano lasciando poi spazio alle montagne. Gli uliveti ordinati e folti lasciavano cosi posto ad irti boschi selvaggi che pareva celassero con gelosia i segreti dei loro aliti e dei gemiti di vita e di morte, consumati al riparo di un lentischio e di un cespuglio profumato di bacche di mirto. 
La ragazza osservava la montagna con desiderio, quasi vergognandosi dei suoi pensieri che si addentravano tra i sentieri e le caverne nascoste dell’enorme rilievo roccioso.
Il padre, unico affetto, con cui condivideva la sua giovane vita, era assai geloso di lei, della sua bellezza, delle labbra carnose, delle folte sopracciglia nere che incorniciavano quegli occhi vispi neri anch’essi più della pece, e desiderosi più che mai di scoprire, di fuggire.
Il paese era noto per la sagra delle castagne che immancabilmente ogni anno si ripeteva. Il frutto carnoso abbondava nelle campagne del padre della ragazza, e a giorni sarebbero arrivati gli uomini per la raccolta. Per la prima volta la ragazza pensava al loro arrivo con euforia, calore, immaginando già i loro corpi bronzei chinati a raccogliere gli spinosi frutti. In fin dei conti anche lei si sentiva un pò come quelle castagne, fuori ispida, dentro dura di carattere, ma che al calore del fuoco dell’amore avrebbe certamente donato la sua profonda dolcezza.
Il padre la rapì alla realtà: era ormai ora di pranzo, aveva fame e le mani ancora sporche e bluastre dalla raccolta delle olive. L’uomo aveva un solo desiderio lavarsi e mangiare, al tavolo che puntualmente la figlia imbandiva, stavolta con grosse fette di pane nero da inzuppare nella cremosa zuppa di ceci che ribolliva sulla pentola, sopra la brace del camino. Mentre addentava con avidità la fetta di pane, senza alzare lo sguardo si rivolse con autorità alla figlia: “ Crasa benin sos pizzinnos , preparanos s’usthu e lassalu fora , chi benzo deo a lu leare! Abbaida a tie, no bessas e no andes a caddu”! (domani verranno i ragazzi, prepara il pranzo e lasciarlo fuori dall’uscio, non uscire e non cavalcare).
La figlia, fece di si con la testa ma i pensieri seguivano un altro sentiero, e in silenzio si portò alla bocca il cucchiaio colmo della zuppa fumante. 
La gelosia del padre all’inizio la lusingava, la faceva sentire protetta e importante, ora la opprimeva. Nei mattini seduta su quella panca osservava il cielo immenso, e si perdeva a seguire i voli maestosi di un’astore , il cui nido era sicuramente fra le fessure nascoste della vetta più alta. Lo vedeva padrone di quel cieli, padrone della sua libertà. Avrebbe anche lei voluto volteggiare, librarsi nell’aria sentirsi leggera e libera. 
L’indomani i sacchi di iuta vuoti erano legati ai lati de s’imbasthu ( sella) del cavallo, la ragazza mentre buttava via l’acqua sporca dal secchio sulla canaletta a fianco del portone, osservava il padre mentre si dava la spinta sui reni per salire in sella. Amava i cavalli, ma il padre le vietava di cavalcarli, ma a volte lei lo faceva di nascosto, era diventata talmente brava che cavalcava senza sella, incurante della dolorosa tensione delle gambe nel seguire l’andatura del cavallo. Quella mattina dopo che il padre si diresse verso il bosco per raggiungere i ragazzi, lei rientrò in casa, si bagnò il viso con acqua profumata ai petali di rosa, si passò le mani lungo il collo raggiungendo l’insenatura dei suoi caldi seni. Si sentiva rinfrescata, profumata, si sentiva viva! Indossò il completo da amazzone che di nascosto le aveva regalato sua zia. Davanti allo specchio chiuse il penultimo bottone della camicia nera che a malapena conteneva il bel seno. Infilò i pantaloni di velluto e la giacca di velluto, che riprendevano la stessa tonalità della camicia. Tirò le stringhe ai gambali neri, sciolse i lunghi capelli e si ammirò allo specchio. Andò nella stalla mise le redini a Bentu ( Vento) un bellissimo esemplare di anglo arabo sardo e lesta lo cavalcò. Raggiunse il sentiero impervio che portava al bosco. A quell’ora il padre aveva già dato le consegne ai ragazzi e si era diretto dall’altra parte del monte per controllare le sue capre.
La ragazza scese da cavallo con le gambe ancora tese e doloranti dal galoppo, sentiva il suo cuore battere, strinse fra le mani le redini del cavallo accarezzandone il dorso sudato. Iniziò a sentirne le voci, scostò un cespuglio di lentischio e li vide: due corpi chinati, le spalle possenti, la nuca rossastra. Sorrise, in particolare uno di loro attirò la sua attenzione. Ne osservo le spalle, e sorridendo si soffermò sulle natiche che le ricordavano tanto la polpa dura e turgida dei pomodori caldi sotto il sole di luglio. Vide le mani del ragazzo che raccoglievano i frutti spinosi dai rami più bassi, e desiderò per un lungo attimo di essere come quel frutto spinoso tra le sue mani. Il cavallo interruppe il flusso dei suoi desideri, e si impennò spaventato da una lepre che sbucò dalla sua tana. La ragazza con fatica lo tranquillizzò ma i ragazzi si accorsero di lei, la guardarono e quel ragazzo la fissò con curiosità ammirando la visione della giovane amazzone del bosco. Si mosse per andarle incontro ma lei scappò, perdendo però il suo braccialetto di cuoio intrecciato. Il ragazzo lo raccolse, lo strinse fra le mani e lo portò alla bocca sentendone il profumo di acqua di rose.
La ragazza cavalcò, si sentiva tutt’uno col cavallo, povero Bentu incitato ad una lunga corsa fino alla riva di un rio. Qui la ragazza scese da cavallo e si buttò sull’erba ormai esausta, e rise, rise rotolandosi sull’erba bagnata. Era contenta, felice, libera. A pancia in su osservò il cielo, carico quella mattina di nuvole spazzate velocemente dal vento di maestrale e lo rivide: era l’astore che volteggiava librandosi nel vento, ma stavolta non era l’unico padrone del cielo era con un altro astore, probabilmente una femmina che inseguiva in infinite girandole d’amore.
Il padre la sera al ritorno trovò come sempre la tavola imbandita, il fiasco di vino, su pane frattau e sul tagliere un bel pezzo di lardo bianco. Come sempre parlò poco, ma osservò la figlia, la vedeva diversa. Notò i capelli sciolti ne senti il profumo di rose. Ebbe paura, senti un groppo alla gola. Fermò la mano all’altezza del mento col pezzo di pane e lardo e chiuse gli occhi, l’angoscia si impadronì di lui, ricordò la stessa espressione e lo stesso profumo della moglie quella notte. Come impazzito si alzò si avvicino da lei e presala per il braccio le chiese: “ Ses andada a caddu beru?Fisthi inie?)( Hai cavalcato vero? Sei andata da loro?).
La ragazza si divincolò da quella stretta lo guardò con sfida e serrando le labbra tirò indietro con orgoglio una lacrima calda e scappò via.
L’indomani il padre andò alla stalla, ma Bentu non c’era e non c’era neanche la ragazza. Era andata a riprendere il suo bracciale, mentre cavalcava verso il bosco l’emozione di rivedere quel ragazzo riscaldava tutto il suo giovane corpo. Raggiunse il sentiero impervio del bosco, scese da cavallo fece appena in tempo a scostare il cespuglio che sentì alle spalle una calda mano cingerle i fianchi. Con l’altra mano il bel giovine avvicinò il suo viso alla sua bocca, con denti perfettamente bianchi: era il ragazzo del bosco. Mentre il padre chiamava a squarciagola la ragazza il bosco avvolse i due ragazzi nel loro segreto, celandone gli infiniti gemiti d’amore. Mentre in cielo volteggiava ora l’astore con i suoi richiami d’amore verso la sua femmina che ,dopo tanti volteggi librando nell’aria si arrese infine al suo richiamo. Il padre sentì il grido d’amore dei due rapaci, li osservò e finalmente capi che avrebbe dovuto rendere libera la sua creatura, solo cosi non l’avrebbe persa come accadde quella notte con la moglie, per troppo tempo vittima delle sue briglie e che decise di cavalcare haimè verso quel bosco pur di 
riprendersi la sua libertà.

martedì 1 dicembre 2015

Tornei caccia cavalieri





A CURA DI: Mario Grimaldi



COMPORTAMENTI.



E' vero, non solo erano molto turbolenti i cavalieri agli ordini dei feudatari o dei castellani arricchiti che avevano comperato un titolo nobiliare , ma anche molto pericolosi nelle loro scorribande: causavano alle campagne e persino ai monasteri dei gravissimi danni... Allora si cercava di distrarli appunto con questi rodei nello svolgersi dei quali potevano sfogare tutti i loro istinti guerrieri in scontri senza esclusione di colpi fra due squadre di cavalieri opposte. Il Rodeo si svolgeva in un apposito recinto sotto l'attento sguardo di esperti, che poi premiavano i migliori, ovvero quelli che restavano in vita. In un secondo tempo furo ammesse ad assistere allo "spettacolo sportivo", anche dame e damigelle vestite con i loro abiti più belli e di fiori incoronate. 
Allo stesso modo i cavalieri erano però anche , diciamo così, distratti da una altra loro grandissima passione: LA CACCIA, che si praticava con grande dispiego di cani, battitori e suono di corni. Cacciavano soprattutto il cervo, ambitissimo anche come dono a personaggi di riguardo, e il cinghiale, pericolosissimo, che costò la vita a molti nobiluomini. Senza poter poi dimenticare la silenziosa caccia col falcone ritenuta più elegante e più simile ad un' arte che non allo sfogo di "istinti violenti".
M.G.

sabato 21 novembre 2015

Medioevo: Le nefandezze dell' INQUISIZIONE


A CURA DI : Mario Grimaldi




MANUALE DELL'INQUISITORE



Come sappiamo a Sassari vi era, presso il castello Aragonese, l’insediamento dell’inquisizione dove, in nome della chiesa, si compivano le più orrende pratiche di vessazione fisica nei confronti degli inquisiti, fossero essi colpevoli o innocenti.
Risulta addirittura che era in uso un vero e proprio 
< MANUALE DEL PERFETTO INQUISITORE >.
L’istituzione di questo aberrante tribunale nel Medioevo aveva, infatti, fatto fiorire numerosi “vademecum” che suggerivano agli inquisitori i “trucchi” per far confessare l’accusato. Ecco , di seguito, alcuni espedienti consigliati da un monaco, esperto in merito, del quattordicesimo secolo.:

“Mentre l’accusato è già legato allo strumento di tortura, l’inquisitore sfoglierà lentamente più e più volte le carte dove sono scritte le accuse, poi dirà con tono addolorato e perplesso: < E‘ chiaro che tu menti e che ho ragione io >.Però stia attento l’inquisitore a tenersi sulle generali e a non fornire mai particolari, per tenere l’accusato nella massima ansia e confusione. Per esempio dirà: < Sappiamo bene dov’eri, e quando e con chi, e quello che hai detto >.
Se l’eretico continua a negare, l’inquisitore fingerà di doversi assentare a lungo e dirà: < Guarda, ho pietà di te! Volevo proprio concludere questa faccenda e non lasciarti così sotto i ferri. Perché tu sei delicato e potresti ammalarti gravemente. Ma tu mi obblighi a lasciarti con gli aguzzini fino al mio ritorno. Mi fai pena, sai, perché non so quando riuscirò a tornare! >
Se ancora non confessa , sarà sottoposto a tortura in assenza dell’inquisitore, per tutto il tempo che egli vorrà concedere alla sua assenza. Questa assenza e un dolore fisico insopportabile, di cui non si può prevedere la durata, getterà inevitabilmente il torturato nella disperazione e, al ritorno dell’inquisitore, la confessione sarà molto probabile”.
( Non c’è che dire! un vero e proprio corso di crudeltà fisica e psicologica impartita a quei mostri scevri da ogni sorta di rispetto di ogni valore e diritto umano)
Grazie per l’attenzione
‪#‎mariogrimaldi‬


martedì 10 novembre 2015

SPACCATI DI VITA DEL MEDIOEVO: UN MATRIMONIO A SASSARI.




A CURA DI: MARIO GRIMALDI

BREVE CRONACA DI UNA FESTA DI NOZZE 
SVOLTASI NEL PERIODO MEDIOEVALE.




Donna G. P. fece ordinare una bella e grande festa per le sue nozze a cui invitò gli uomini più onorati, non solo della città, ma anche di tutto il territorio, naturalmente in compagnia delle loro donne. 
La festa fu allietata per più giorni da suoni, canti, balli e solennissimi banchetti, con sommo piacere di tutti gli invitati. Alla fine di ogni pranzo, sempre splendido e rallegrato da saltimbanchi, ballerini e buffoni, da suoni di strumenti e da canti, gli illustri commensali si spostavano nel parco. Era questo fuori le porte di Sassari un parco molto grande dove era sita una enorme casa nobiliare, (della quale ancora, chi ne conosce la storia e il posto, può ammirarne, fuori dal centro urbano l’imponente rudere della villa - interessata alla nostra storia - ancora antica vestigia di quel tempo passato e a testimonianza del benessere di cui godevano i nobili), un parco con aree curate e di meravigliosa bellezza: gli invitati si disponevano in cerchio seduti sull’erba, alcuni vicino a una fontana, altri sotto gli ombrosi allori e palme, parlando dell’amore degli sposi, chi lodandolo, chi criticandolo. Molti marchesi, conti, baroni e cavalieri si dedicavano alla caccia pomeridiana: la caccia era uno degli svaghi principali, anche perché - secondo le mentalità del tempo - rassomigliava molto alla guerra: la campagna circostante era ricchissima di selvaggina e il cacciarla era veramente un piacere da gran signore e conveniente per un uomo di nobil schiatta.
Altri preferivano l’equitazione che aiutava la digestione e preparava uno stomaco “agile” in vista dei bagordi serali in occasione della cena ed inoltre era un modo di pavoneggiarsi davanti agli occhi interessati delle dame che non disdegnavano gradimento nel veder volteggiare l’uomo a cavallo e ammirarlo leggero e abile in quell’esercizio faticoso... insomma alla stessa stregua di un grande guerriero.
Il dopo cena ... chi sa.... forse ci si lasciavano andare, sia dame che cavalieri, in balli e danze molto discreti, in attesa trepidante della notte! Tutto ciò per giorni e a volte anche settimane.
Questo era un tipico matrimonio dei Signori che vivevano nel Medio Evo....
Invece come era una festa di nozze dei borghesi, artigiani, contadini e pastori?
In seguito qualche informazione in merito verrà dispensata.
Grazie per l’attenzione.
M.G.



martedì 27 ottobre 2015

Racconti: IL TAVOLO DEI MORTI

A cura di Elisa Casu

Luisigheddu si divertiva a far girare la vecchia marroccula (trottola in legno) sul tavolo di cucina, intorno alla candela che ogni volta che la vedeva roteare minacciosa sembrava la volesse schivare abbassando improvvisamente la sua calda fiamma per poi risollevarsi con orgoglio. Al vecchio orologio a pendolo appeso sopra la cappa ingrigita del camino mancavano ormai pochi minuti alle 6, e proprio al primo rintocco ecco che il bambino sentì girare la chiave nella pesante serratura della porta e come una saetta corse incontro fra le braccia stanche della mamma, che anche quel giorno aveva terminato la giornata di lavoro dai signori Matilde e suo fratello Antonio. “Mà, ma itte m as battidu oe?” (Mamma cosa mi hai portato oggi?) E cosi dicendo rovistava avidamente nella tasca del grembiule nero a fiorellini bianchi della mamma.La donna facendosi cadere pesantemente sulla sedia di paglia di fronte al camino, tolse da sotto lo scialle marrone un piccolo melograno, che illuminato dal bagliore delle fiamme nel camino mostrava il suo sorriso facendo un pò rabbrividire il bambino, in fin dei conti mancava ormai poco a sa die de sos mortos (il giorno dei morti).E mentre insieme alla mamma sgranavano il succoso frutto, con le mani rosse il bambino faceva cadere in bocca i semi di melograno e intanto chiedeva curioso quando avrebbero apparecchiato per i morti.La mamma sorrise, passandogli fra i capelli spettinati la sua mano ancora nera del lucido da scarpe che signor Antonio si ostinava a farle usare quasi ogni giorno pro sos cambales, orgoglio di una ricchezza e di uno sfarzo che ormai appartenevano già al passato.

Diaulu e presse fizzu mè, a crasa aisetta (Non aver fretta figlio mio, aspetta a domani).Signora Matilde, la signora presso la quale lavorava la donna, non si era mai sposata, nonostante fosse una gran bella donna, di lei infatti si diceva che da ragazza avesse i capelli più lunghi e lucenti fra tutte le ragazze del paese, folti e resistenti come una criniera di cavalla, e proprio come una cavalla era il suo carattere che nessun cavaliere riuscì mai a domare. Si parlava però di un soldato che durante la guerra si innamorò di lei, giurandole eterno amore e chiedendola in sposa prima di partire al fronte. Di signor Antonio, suo fratello, nessuno osava immaginare come un uomo cosi avido potesse aver avuto mai un amore, la gente a cui faceva firmare le cambiali vedeva in lui più che altro una sanguisuga che succhiava dalla disperazione della gente la poca dignità rimasta.Ma agli occhi di Luisigheddu i signori brillavano non tanto per i loro animi quanto per l’argenteria della loro villa, i grandi quadri de sos giajos (antenati) appesi nella parete di fronte al grande camino e aspettava il momento in cui avrebbe finalmente accompagnato la mamma a preparare sa banca pro sos mortos nella grande villa (il tavolo per i morti).
Il bambino seduto nella poltrona, approfittava il fatto che i signori portassero i fiori alla tomba di giaju e giaja (i nonni) per poter osservare la mamma che preparava il tavolo rotondo in mogano rossiccio per la notte dei morti.  La donna con gesto deciso spiegava la tovaglia intagliata a piquet, metteva i due piatti di fine porcellana, affiancava i tovaglioli in raso giallo e completava con i calici di cristallo. Non osava chiedere il perché mancassero le posate, sapeva già, mentre un brivido gli attraversava la schiena, il motivo di tale assenza, e ci pensava la mamma ogni volta a ricordarglielo: “Luisighè attenzione a no ponnere sos burteddos o sas forchettas ca sos mortos si poden punghere e punghere puru a nois (Luigino stai attento a non mettere i coltelli e le forchette poiché i morti potrebbero pungersi o pungere noi).Messo al centro il portafrutta a cascata in argento, il lavamano con la pasta asciutta ancora calda, il sigaro toscano ancora incellofanato (sarebbe stato uno spreco aprirlo) e la bottiglia di vino la donna lo guardava ancora un pò a distanza, contenta rimetteva lo scialle marrone sulle spalle e preso per mano il bimbo lasciava la grande casa per avviarsi verso casa, la sua di casetta.Luisigheddu apparecchiava da solo pro sos mortos de domo (i morti di casa), la mamma sapeva che si sentiva l’uomo di casa e lo lasciava fare mentre lo guardava accovacciata nella sedia di paglia rotta dando le spalle al camino.Il tavolo era ben diverso da quello dei signori, ma non meno dignitoso: 3 piatti sbeccati: unu pro giaju, diceva Luisigheddu, unu pro giaja e unu pro bisaja bonanima (uno per nonno, uno per nonna e uno per bisnonna buonanima) In chelu che sian (che riposino in cielo), sospirava in preghiera la mamma.  La tovaglia era ricamata da qualche rattoppo, al centro del tavolo un lavamano cun sos ciccioneddos (gli gnocchetti), fatti con amore dalla donna uno per uno su un vetro spesso a scalanature, dalla tipica forma di conchiglia allungata. Il bambino aggiunse un fiasco di vino rosso, una sigaretta storta dall’anno prima, un pò di latte dentro la tazza di smalto sbeccata, 3 pappassini, un grappolo d’uva bianca e un tozzo di pane.Il bambino soddisfatto diede un ultima controllata in giro, prese lo spiedo appoggiato al camino e lo nascose con cura.

 La mamma lo guardò con approvazione e insieme si stesero sopra il lettone in religioso silenzio dopo aver acceso il lumicino sul piano polveroso del camino. La notte arrivò presto. Il maestrale sembrava capisse che dovevano arrivare numerose visite nelle case del paese, e urlava quasi riecheggiando dei gemiti dei morti, soprattutto quelli dimenticati che arrivavano e trovavano tavoli vuoti e lumicini spenti.La notte la porta della casetta non era stata chiusa a chiave per cui il vento con facilità vi soffiò dentro invitandoli ad entrare.  Per primo entrò giaju, un ometto dalla schiena ricurva dal tanto lavoro svolto sulla terra, e dagli occhi di un verde azzurro che curiosi cercavano intorno, si tolse la ciccia a quadri e mostrò il luccichio del dente d’argento quando sorrise contento guardando il tavolo, e vedendo che non si erano dimenticati di lui. Senza parlare l’uomo si voltò verso la moglie che zoppicando lo seguiva prendendolo a braccetto, anche lei sorrise, tirandosi dietro i ciuffi dei lunghi cappelli neri raccolti in un morbido mogno. Alla fine comparve anche lei bisaja (bisnonna), si avvicinò leggera ai due che dormivano e non potendoli toccare ne volle sentire ancora una volta i loro profumi. Giaju annusò il profumo del vino che tanto amava, e riconobbe che era quello del compare Michelinu cantas buffadas umpare! (quante bevute insieme) pensò. La moglie guardò i polposi chicchi d’uva e il pane posto accanto, quante mangiate de ua cun pane! (di uva con pane)e per ultimo la bisnonna desiderò annusare tanto sa suppa de latte (zuppa di latte). Era già ora di andar via, l’uomo volle ancora rivolgere un ultimo sguardo a quella sigaretta storta che aveva in vita fumato, o meglio diceva la moglie faceva fumare agli altri. I tre prima di uscire, richiamati dal sibilo del maestrale che minacciava di chiudere la porta, guardarono con nostalgia e immenso amore madre e figlio abbracciati sotto la coperta a quadri, la stessa che aveva riscaldato le loro notti e benedicendoli, lasciarono la casa, la loro casa, contenti di non essere stati dimenticati.

Il maestrale provò a bussare alla porta dei signori Antonio e Matilde, vi entrarono in due, un vecchio ben vestito con un cilindro di raso nero in capo e una profonda tristezza che celava i suoi lineamenti, a fianco a lui un giovane soldato, con l’uniforme pesante verde. Il vecchio guardò l’argenteria, osservo i fratelli che dormivano avrebbe voluto dire cosa aspetta a chi è avido, ma non poteva e triste si allontanò senza neanche annusare il profumo della pasta posta al centro del tavolo apparecchiato. Il soldato aveva un bel viso, sorrise osservando con amore la donna che dormiva con a fianco nel comodino la sua foto, l’unica che le aveva lasciato prima di morire al fronte, ma gli bastò per capire che non si era dimenticata di lui. Si avviarono ma mentre lasciavano la casa un gemito forte attraversò lo spirito del vecchio: era la visione di quel sigaro, ancora confezionato. L’avidità del figlio era cosi tanta da non farle assaporare il profumo del Toscano, che tanto amava, unico piacere che si era concesso in vita. Strillò e il gelo di quel strillo riecheggio nella grande e lussuosa casa, svegliò i due fratelli che credettero fosse il miagolio del gatto e lesti si riaddormentarono. Ma quello strazio raggiunse per un attimo anche le case povere intorno alla grande villa, vi abitavano cuori poveri e semplici, che rabbrividirono, si fecero il segno della croce e pregarono con un requiem eterno per quell’anima in pena che ancora in quella grande casa gridava e urlava ogni anno puntualmente il grande dolore e la profonda ferità creata negli animi dall’avidità umana.



lunedì 26 ottobre 2015

STORIA: Sfogliare i documenti.

A cura di Mario Grimaldi
Entrare nei segreti dei documenti storici e come correre avanti e indietro nel tempo e nello spazio: per esempio le fonti provenienti dal medioevo sono documenti materiali e documenti scritti.DOCUMENTI MATERIALI sono gli edifici. i mobili, le pentole, le stoviglie, gli abiti, gli attrezzi di lavoro, le armi, le monete, insomma tutto ciò che è rimasto di quanto gli uomini e le donne hanno fabbricato per vivere, lavorare, viaggiare, combattere e così via. Tra questi documenti materiali sono molto importanti i DOCUMENTI FIGURATI, nei quali gli artisti rappresentarono le proprie imprese e la propria vita quotidiana. Si usavano, per far ciò diverse tecniche: il mosaico, la miniatura,., la vetrata, la scultura, l’altorilievo, il bassorilievo e persino il ricamo.I DOCUMENTI SCRITTI che per tutto il medioevo non furono libri a stampa ,come i nostri, ma solo opere scritte a mano perché la stampa non era stata ancora inventata.



E POI:

sabato 24 ottobre 2015

Pillole Medioevali : edilizia nel basso MEDIOEVO


A cura di: MARIO GRIMALDI




Mario Grimaldi

Edilizia nel basso Medioevo:


"Varie necessità di allora, quale per esempio quella dello sviluppo, per quanto ci riguardava, mercantile e della economia urbana, imponevano l’ampliamento della città e trasmettevano alla popolazione urbana una febbre edilizia senza precedenti.Il centro originario della città era fitto di torri e di palazzetti nobiliari, ognuno dei quali aveva il suo forno e il suo pozzo, che venivano affittati a chi non li aveva creando ingorghi di gente, bestie e carretti. Gli edifici erano stati costruiti senza alcun piano preciso ed erano affacciati su un intrico fittissimo di stradine e vicoletti, tutti storti, spesso ciechi e sbarrati da un altra casa, sorta a chiudere il passaggio come per dispetto.Inoltre, nel tentativo di fornire alle stanzette un sia pur minimo sfogo, venivano aggiunti balconcini e verandine in legno che, sporgendo sulle stradine strette, impedivano persino al crocifisso di passare quando un prete si recava da un malato, (le stesse chiese affacciavano spesso su spazi angusti e avevano i muri esterni in comune con le case di abitazione di qualche signorotto.Il panorama dei borghi, al contrario era meno pittoresco e un po' monotono, ma più razionale. La gente che arrivava in città da fuori, infatti, costruiva seguendo le direttive del Comune, che cercava di creare vie principali dritte e relativamente ampie e di fornire i quartieri delle attrezzature principali (i forni e i pozzi).Le nuove case erano piccole e modeste, quasi sempre di due piani e addossate le une alle altre; gli storici le hanno chiamate, con un’espressione attuale, < case a schiera >. La differenza con quelle nobiliari cominciava a notarsi anche nei materiali usati. Mentre i ricchi ricostruivano in pietra i vecchi edifici di legno, il legno restava la struttura portante delle case più povere.Queste <case a schiera> avevano una stanza al piano terra, che era spesso cucina e bottega, e una al piano di sopra con un unico letto in cui dormiva tutta la famiglia, che in quest’epoca era cresciuta fino a sette-otto persone: immaginiamo dunque la promiscuità con la quale si viveva.Ci si coricava tutti nudi, nella speranza che di notte pulci e altri parassiti abbandonassero gli abiti. Le finestre erano piccole e chiuse da ante di legno. Di giorno, per avere un po di luce e non fare entrare le mosche, si applicavano alle finestre delle tele cerate o dei fogli di pergamena. I vetri (la tecnica del vetro <a fogli> era stata appena inventata) era un lusso anche per i più ricchi e si usavano solo per i finestroni delle chiese."






giovedì 22 ottobre 2015

Sassari - Lo stemma della tua città.









A cura di: Sassari Storia

Questo primo video dedicato allo stemma di Sassari è intessuto di documenti visivi e scritti oltre che al commento vocale, ma i metodi per affrontarli sono risultati difficoltosi a causa delle svariate improbabilità che a tutt’oggi ne caratterizzano le loro incertezze storiche. Si parla addirittura di ippopotami oltre che di scudi e di torri, quindi è facile capire e far nostre, insieme agli autori, le perplessità e le inevitabili contraddizioni che fino ad oggi sono state palesate da tutti gli storici e studiosi che si sono appassionati all’argomento.Comunque, riteniamo che questo primo lavoro (al quale, dopo l’esperimento di altre opportune ricerche, ne seguirà un secondo), sia meritevole delle dovute attenzioni da parte di tutti NOI.Nel ringraziare,ancora una volta tutti i fautori, auguriamo buona visione. Nel ringraziare ancora una volta tutti i fautori, auguriamo buona visione.
Posted by Manuela Trevisan on Martedì 20 ottobre 2015
370 condivisioni 
frame Piace a Mino Fauzia, Maria Antonietta Pedoni, Samuele Pinna e altri 431.

lunedì 19 ottobre 2015

MEDIOEVO: Invenzione delle tecniche finanziarie.



A CURA DIGiovanna Palmieri e Mario Grimaldi


Tecniche finanziarie usate in tutti i territori italiani,
(quindi anche da noi).


In quei “bui” tempi nella vita già rischiosa dei mercanti, poetare con se tante monete d’argento da comprare l’intero carico di un convoglio aumentava i pericoli.

Per risolvere il problema, i mercanti inventarono una serie di tecniche finanziarie che resero più comode e rapide le contrattazioni. Una fu la CAMBIALE, una “lettera di cambio” che permetteva di viaggiare, senza denaro addosso ed era l’equivalente di un odierna carta di credito. Un’altra fu l’ASSICURAZIONE che ridusse i rischi di viaggio.
Risultati immagini per moneta medievaleRicordiamo che Italiana fu anche la prima Banca nata però a Genova nel XII secolo. Prese questo nome perché anche il banchiere, come un qualsiasi bottegaio, svolgeva le sue contrattazioni stando in piedi dietro un banco.
All’inizio la sua funzione si limitava a quella di cambiavalute, non prestava denaro perché ufficialmente il potere ecclesiastico non permetteva ai cristiani di svolgere questa attività che chiamava USURA e che condannava come peccato mortale. Ma senza i prestiti non sarebbe esistito il commercio, e quindi questo compito era assolto da ebrei, la cui religione non vietava tale attività. Già nel XIV secolo, tuttavia, molti vescovi avevano tolto questa proibizione nei loro territori.
Era invece lecita, anche per i cristiani, la commenda, un contratto con cui una persona danarosa si impegnava a finanziare la spedizione di un mercante. Al ritorno il mercante tratteneva i tre quarti swl guadagno mentre un quarto andava al finanziatore. 

Queste tecniche finanziarie permisero l’ingresso nel campo degli affari di una categoria di persone molto facoltose che non commerciavano in proprio, ma mettevano il denaro a disposizione del mercante e, se erano accorte e fortunate, accrescevano il proprio capitale senza muoversi da casa: I FINANZIERI.














lunedì 12 ottobre 2015

Sassari storia

#sassari

Ieri abbiamo trasmesso uno showreel di quella che è stata la mole di lavoro del mese precedente. Oggi trasmettiamo un video un po' più curato per spiegare esattamente quale è la missione di Sassari Storia. Ricordiamo a tutti gli amici presenti sul nostro spazio, che noi non abbiamo bisogno e intenzione di trarre profitti da questo hobby. Tutto gratuito e tutto a disposizione degli iscritti. Anticipiamo che è in fase di esecuzione e di studio, il tanto agognato programma che di volta in volta racconterà gli aneddoti e le vicende storiche riguardanti la nostra magnifica città. Con l'ausilio degli esperti, si parlerà di storia attraversando i vari periodi. Chiediamo gentilmente a tutti i nostri amici/membri, di condividere questo video per rendere pubblica la nostra missione. Sassari storia... è sempre con Voi. PS : Chiunque avesse del materiale storico da inviarci, potrà farlo pubblicamente personalizzandolo e dotandolo di un minimo di recensione storica. Grazie per la vostra attenzione. ( Per Sassari Storia Manuela Trevisan ) #sassari

Pubblicato da Manuela Trevisan su Mercoledì 29 aprile 2015

Amore amicizia fedeltà un'unico enorme sentimento: "Il cacciatore e il suo gregario".

-----
A cura di : MARIO GRIMALDI

L’uomo lasciò scivolare la bicicletta , come in una leggera planata, lungo la discesa dalla cima del crinale, dopo aver affrontato una salita faticosa ( da percorrere in quelle condizioni) senza essersi risparmiato nel pedalare. L’animale, che amorevolmente trasportava nella cassetta alloggiata vicino al manubrio, con i suoi occhietti attenti scrutava la campagna, ricca di secolari ulivi, ma, a quei tempi parca di abitazioni - solo qualche casupola contadina - e sparse qua e la ,disperse nelle centinaia di ettari, qualche casa padronale appannaggio dei signori.Il vecchio cacciatore, che fino a quel giorno non aveva mai perso una giornata di attività venatoria, da una vita durante la quale era stato accompagnato dal suo gregario, amico unico e vero caratterizzato dalla sua tipica peculiarità canina: fedeltà incondizionata, tentava di raggiungere la sua postazione, quando ad un certo punto qualcosa accadde.
Aveva superato i settant’anni, era ancora forte, perfettamente in forma, per quanto poteva permettere l’età di esserlo; eppure, quel giorno si accorse che vi era qualcosa che non andava per il verso giusto. Infatti si sentiva disturbato da uno strano capogiro, cercava di trovare, dentro di se, il motivo di quel, per lui raro malore: “ < Ma sarà perchè ancora non ho consumato la colazione, oppure, forse, anche, quel bicchiere di vino in più che mi pare aver bevuto la scorsa notte durante la cena...”> Aveva appena terminato di pensare quando improvvisamente la ruota anteriore della bici stallo sulla strada sterrata e ricca di sassi, il rendersi conto che stava per cadere e che ciò effettivamente accadesse fu tutt’uno.
Rovinò in una impervia cunetta e solo la provvidenziale presenza di un pino, col suo tronco ne fermo il pericoloso rotolare. Perse i sensi per qualche minuto e una volta riavutosi si rese immediatamente conto di aver una gamba fratturata: ed ora come riesco a risalire sulla strada si chiedeva mentre stringeva i denti per il lancinante dolore. ... Roki!!! gridava, Roki... Roki !!!, ma dopo diversi tentativi si accorse che il suo richiamo era inutile, e fu questo che lo getto tra le braccia di un ansia talmente forte da fargli dimenticare il dolore procurato dal trauma subito. “Sarà morto il mio cane, avrà riportato qualche frattura anche lui, povera bestia, e quindi non avrà neanche la forza ne il fiato per rispondere al suo padrone”. Intanto si erano fatte circa le ore 18 del pomeriggio, di quel pomeriggio novembrino, umido e un tantinello anche freddo. L’uomo, se pur di grande coraggio, si sentiva smarrito ed ogni tanto le sue labbra si schiudevano in un smorfia di crudele dolore e di disarmante costernazione per quanto poetesse esser accaduto, soprattutto al suo fido amico.Passarono alcune ore, quasi angosciose, ma finalmente, Zio T...., intravide in lontananza, sul ciglio del viottolo, la luce di una torcia che faceva da padrona nel buio della notte oramai sopraggiunta; udiva un latrato sempre più vicino e insistente che squarciava l’assoluto silenzio della campagna. Ebbene si! , Roki, non si era procurato neanche un graffio nella caduta ma si era reso subito conto di non poter intervenire in aiuto del suo amato padrone. La saggia, se pur istintiva decisione da parte della creatura fu quella di attivarsi per cercare aiuto, pr diverse ore tento di attirare l’attenzione nei pressi di alcune case ubicate li intorno, ma non sempre l’intelletto umano è compatibile in termini di comunicazione con quello animale, quindi qualche pietra e perfino qualche calcio allontanava il cane. Quel cane che però è il caso di dire”non demordeva” portando avanti la sua missione finchè non ebbe successo quando incontrò quella sensibilità umana che lo capì, lo seguì e dunque soccorse il suo padrone. Tutto fu risolto per il meglio.Questa è una storia vera, potrebbe sembrare una storia di ordinaria amministrazione, lo sappiamo tutti che gli animali suffragano nella maggior parte di eventi sfortunati i loro padroni, e non solo; ma se pensiamo che molti esseri umani ogni giorno si macchiano di quell’infamante esercizio della omissione di soccorso, ebbene allora diamo un notevole valore all’operato di queste creature non umane che meglio dimostrano (scusando il gioco di parole) l’umanità.

(Fatto accaduto circa ottant'anni or sono a Sassari in Località Filigheddu).

--------- frame

venerdì 9 ottobre 2015

Sassari e il suo passato




A cura di:  Paolo Grindi
Consiglio agli amici di Sassari Storia di leggerlo, è un pochino lunghetto ma ne vale la pena. Naturalmente non è farina del mio sacco (ho fatto alcuni aggiustamenti, per essere più fluida la lettura), è una bella e caratteristica descrizione della nostra Sassari del XIII sec. del nostro concittadino Enrico Costa.
“Visitando l’attuale rione di Sant’Apollinare, si può ben farsi un’idea dell’antico villaggio di Sassari. Esso consisteva in diversi piccoli gruppi di misere casette mal costruite , messe là alla rinfusa, senza ordine, sopra un terreno accidentale, formanti una piazzetta rettangolare che ha conservato fino ad oggi il battesimo di “Pozzu di bidda”, come lo aveva al tempo remotissimo.

A cominciare dal secolo XIII, la città era chiusa da una cinta muraria con quattro porte di uscita, le quali si aprivano all’alba e si chiudevano all’Ave Maria; le porte erano: del Castello, di Durusele, Sant’Antonio e Utzeri.

La topografia interna non aveva nulla di speciale: un vero labirinto di viuzze anguste, irregolari, sporche per la mancanza di canali di spurgo; le quali vie serpeggiavano in tutti i sensi fra gruppi e gruppetti di casette di meschina apparenza, unite spesso con archetti di sostegno, o addossate l’una all’altra, come pecorelle paurose e tremanti per freddo. Da questi meschini caseggiati spuntava una mezza dozzina di chiesette e parecchi oratori, fra i quali primeggiava la parrocchia di San Nicola, che più tardi doveva ergersi all’onore di Cattedrale. Gli edifici più distinti erano allora i due destinati a sede del Consiglio Comunale, e a stanza dei rappresentanti l’autorità governativa.
Era questa l’antichissima Sassari, che al principio del secolo XIV doveva prendere una fisionomia più spiccata e caratteristica, sia per i bassi e irregolari porticati che fiancheggiavano la via maestra, sia per i ballatoi di legno che adornavano le case signorili – delizia delle donne, che in quei tempi facevano vita casalinga, non uscendo di casa che per andare a messa, o in campagna.
All’interno della città la popolazione viveva nelle strettoie e respirava a disagio. Questa cinta di pietra non voleva allargarsi. Come crescevano le famiglie, così crescevano in altezza le misere casette, quasi in cerca d’aria e di luce.

Guai ai cittadini, se non avessero avuto uno sfogo quotidiano negli orti, vigne ed ameni giardini che circondavano l’abitato. Guai alle famiglie, se di tanto in tanto una peste provvidenziale non fosse venuta a decimarle. Pareva che la metà della popolazione si affrettasse a morire, per lasciare vivere più comodamente l’altra metà.  
Eppure, in quei bugigattoli, abitava nel secolo XIV una popolazione fiera, saggia, patriottica, che teneva alla gloria degli avi; una popolazione che sfidava qualunque pericolo, insofferente di ogni servitù; sempre pronta ad insorgere quando si credeva lesa nel proprio diritto, e pronta ugualmente a menar le mani quando la si invitava a prendere le armi per assalire la rocca di qualche prepotente di casa Doria. 
I nostri padri della patria, così fieri e tenaci della dignità del proprio paese, erano parimenti smaniosi di mettere le parrucche e di vestire le rosse toghe di damasco, per accompagnare i Candelieri alla chiesa di S, Maria, o per recarsi in pompa magna alla basilica di Porto Torres, col santissimo scopo di cenare lautamente a spese del Comune ed a gloria dei beatissimi Martiri Turritani.

Dentro quel guscio di noce, cerchiato di muraglie, ferveva la vita cittadina sassarese. Ma, quale era questa vita? Innanzitutto la smania delle gite in campagna a maggio e nell’ottobre, al tempo del raccolto; ogni domenica le passeggiate fuori la porta, in cerca di fresco e di sole; ogni tanto le processioni in onore a tutti i Santi del calendario; due tratti di corda ad un ladruncolo nello spigolo della casa comunale; le bastonate ad un malvivente dinanzi alle carceri di San Leonardo; i fuochi d’artificio sul colle dei Cappuccini; la corsa dei cavalli in “piazza” parecchie volte l’anno; un po’ di rogo nella “Carra Grande” per ordine dell’Inquisizione in nome di Dio; le staffilate a sangue sui banchi delle scuole, in nome della scienza; gli spettacoli della forca e lol squartamento dei cadaveri, in nome del Re.
La voce dei bronzi teneva desti i cittadini: la campana di Città che suonava il “ritiro”; le campane delle chiese che chiamava i devoti alle sacre funzioni; il campanone del castello, che annunziava l’agonia di un condannato a morte. 
Ed in mezzo a questa vita paurosa e ricca di emozioni, non mancavano mai le “gobbule” taglienti, le mascherate allusive, le burlette spiritose – poiché su tutto e su tutti predominò sempre nella popolazione sassarese quella nota satirica ed umoristica, che è nella sua indole e nel suo carattere. 
Parliamo ora dell’uomo e l’architettura. I severi costumi dei cittadini sassaresi, durante il periodo del regime libero (tra il secolo XIII e il XIV) rispondevano allo stile di quell’epoca: all’architettura pisana, caratteristica della sobrietà, semplicità e eleganza della linea e degli ornamenti. E’ così mantenne, con poche varianti, nei secoli successivi. Ma col secolo XVII le pure linee dello stile pisano cedettero il posto allo stile di un rinascimento barocco, gonfio e pesante. A questo stile rispecchiò fedelmente il carattere dell’uomo di quei tempi. I tozzi capitelli, le sovraccariche facciate delle chiese, le targhette a cartoccio, le decorazioni complicate, rispondevano alle smisurate parrucche, alle pompose toghe rabescate, alle guarnizioni di pizzo, alle trine d’oro, agli sbuffi, ai fiocchi, ai merletti, alle fibbie, ai ciondoli ed a simili cianfrusaglie. La pompa delle forme esteriori, i cerimoniali stucchevoli, le pose plastiche, le mosse leziose, mascheravano la povertà dello spirito e la miseria della sostanza. Tutto era etichetta, artifizio, teatralità. Teatralità nelle sedute del Consiglio Comunale; teatralità nella rappresentazione del “Discendimento in chiesa”, Teatralità nelle processioni religiose, teatralità nel preparare lo spettacolo della forca. Il Santo Ufficio e il Regio Magistrato regnavano col terrore dell’apparato scenico, il quale impressionava profondamente le masse bigotte e ignoranti. L’architettura rispecchiava fedelmente gli uomini.
Il Governo di Casa Savoia seguì in Sardegna, per lungo tempo, le orme del Governo spagnolo e ciò fino a Carlo Felice, il primo Re Sabaudo che si decise a smettere la parrucca. E fu appunto sotto il regno di costui (verso il 1825) che l’architettura degli edifici sassaresi entrò in una fase più geniale, per perfezionarsi in seguito, quando la marsina e l’abito a coda di rondine annunziarono al mondo il principio di una nuova civiltà. Ed anche questa civiltà ha forse descritto la sua parabola con la nuova Italia, per dar luogo a quello stile “Liberty”, che rappresentava l’uomo dell’ultimo periodo in tutte le sue manifestazioni. Gli edifici, come l’uomo, hanno cambiato carattere. Purtroppo però l’uomo di Sassari negli anni 70/80 ha cambiato nuovamente carattere, iniziando l’abbattimento di molte anzi moltissime ville ed edifici Liberty per costruire uffici, banche e grandi condomini, ma questa è un’altra storia".




Piace a Mario GrimaldiRita PintusDaniela Multineddu e altri 477.





























frame

Sassari: nascita del dialetto???








A CURA DI:  Marilena Ticca



Nascita della lingua sassarese???
Gavino Marongio (Letterato - Sassari sec.XIV?, sec. XV - ).
Alla fine di alcuni commenti a una gran raccolta di poesie di soggetto storico, da lui curata, nel 1414 il sassarese M. " Gaini de Marongio" così scriveva: < Tute cheste cose ho iscritto yo secondo lo sentimento de li supra scritti sonetti e canzoni di li diti poeti secomo presenti a tute cossi le dete guerre, e altre cose che se feceno eciam secondo le storie e carte che videro potere chiaramente cho fato in la dita citade de Sassari>. QUESTA LETTERA, - che pare scritta in dialetto sassarese italianizzato> viene ciata da E. Costa a dimostrazione - contro un'affermazione di Vittorio Angius - che la lingua sassarese non è nata dopo la peste del 1477 e 1528 <per i corsi venuti a ripopolare la nostra città deserta>, ma si parlava già nel 1414.
(m.t.)