mercoledì 6 aprile 2016

ARTIGIANI SASSARESI.


A CURA DI: Tino Grindi
    MESTIERI ARTIGIANALI BEN CONOSCIUTI.

Sono nato in via Turritana e ho trascorso i miei primi anni tra le stradine del centro storico di Sassari, in particolare nel quadrivio formato da via Università e via Turritana, le famose quattru cantunaddi: ho potuto così conservare memoria di scene di vita quotidiana che oggi riusciamo a vedere soltanto a teatro, assistendo alle migliori commedie in vernacolo sassarese.
L’economia della città, allora, dipendeva soprattutto dal lavoro autonomo, contadino, mercantile ed artigiano, oltre che da una miriade di ambulanti che proponevano agli angoli delle strade più trafficate prodotti solitamente raccolti da loro stessi in base alle stagioni. In autunno funghi e varie qualità di frutta: mele cotogne, cachi, mele, pere, noci, castagne, melagrane, olive ecc. D’inverno piedini d'agnello, monzette, ecc. In primavera fiori selvatici, ciliegie ecc. D’estate lumache, lumachine, lumaconi e varie qualità di frutta di stagione – fichi, fichi d’India, susine ecc. – e di verdure, tra cui la famosa lattuca degli orti del vallone di Rosello.
C’erano poi alcuni venditori ambulanti che proponevano prodotti particolarmente pregiati, tra cui i capperi che venivano raccolti con grande pazienza, posti in cestini pulitissimi e coperti con un candido tovagliolo ricamato. Altri si dedicavano a raccogliere le bietole selvatiche e ne offrivano le foglie più tenere, e ancora cicoria e cardi selvatici, oltre che le tenerissime foglie di ravanello selvatico chiamato siri.
Qualcuno che invece aveva un carretto o un vecchio carrozzino portava in giro per le strade prodotti quanti poteva averne un negozio di frutta e verdura, e li vendeva pesandoli con l’antica bilancia detta isthadera.
C’erano poi gli artigiani, che esercitavano con cura i loro mestieri, tramandati gelosamente di padre in figlio; e completavano il mosaico delle attività che rendevano la città viva e allo stesso tempo economicamente sicura, soprattutto per gli addetti che vi lavoravano: non esisteva la disoccupazione, per lo meno per chi aveva voglia di lavorare e di produrre.
Molti di questi artigiani, in particolare i fabbri ferrai (frairaggi), avevano una numerosa schiera di ragazzi di bottega (dischenteria), i quali crescevano nel mestiere sotto la guida di bravi maestri (masthri).
Anche i muratori (li masthri frabbigamuri) ed i falegnami (masthri d’ascia) potevano vantare di avere sempre con sé dei brabi dischenti (bravi apprendisti) che con molta volontà e passione cercavano di apprendere bene il mestiere e quindi proporsi per dare continuità dell’arte: perché così doveva chiamarsi un’attività che dava nuova forma alle materie prime, anche se veniva svolta con attrezzi non sempre precisi e calibrati.
Sassari era principalmente artigiana in tutte le sue fibre; venivano poi gli ortolani e i mercanti in genere.
Altre attività artigiane che si distinguevano erano quelle dei sellai (siddaggi), dei bottai (buttaggi), dei carrettieri (carrattuneri), dei calzolai (cazzuraggi), dei piccapietre (piccapidreri) ecc.
A questi mestieri più diffusi e comuni se ne aggiungevano altri più specialistici, come quello dell’armaiolo (aimaiolu), un misto di falegname e fabbro; e quello di lu buccurittadori, che costruiva e inseriva, come abbiamo già accennato, delle boccole in acciaio nelle aperture delle botticelle lunghe da 25 litri (mizzini), in modo che non sgocciolassero quando se ne versava il contenuto.
Altri artigiani importanti per l’economia e la vita quotidiana della città erano i panificatori (panatteri) che, assieme a li carradori (trasportatori di acqua, quando le condotta idriche ancora non esistevano), assicuravano gli elementi base della nutrizione.
A completare il lungo elenco c’erano ancora i mugnai (murinaggi) che traevano farina da vari cereali, e i conduttori dei frantoi per la macina delle olive: dalla loro attività derivavano generi di prima necessità come il pane, la pasta e l’olio.
Altri artigiani importanti nell’economia locale erano i conciatori di pelli (cunzadori), gli argentari e gli orefici, dai quali ebbe un tempo il nome una via importantissima a Sassari, quella che adesso chiamiamo via Rosello; e poi ancora gli imbianchini, chiamati impropriamente pittori (pintori), gli ottonai (uttunaggi), i ramai (raminaggi), ai quali ancora oggi è intitolata una via; gli orologiai (riduzzaggi), i barbieri (baiberi), gli stagnini (isthagneri), i tegolai (tiuraggi), i pellicciai (piddaggi), i sarti (trapperi), etc.
Tutti questi lavoratori si riunivano di solito in gremi o confrarie, alcuni dei quali si mantengono ancora ai nostri giorni e conservano gelosamente le loro tradizioni con gli antichi costumi e ornamenti. Tramite loro riusciamo a rivivere, agli inizi del Duemila, momenti di una memoria storica ormai lontana ma molto suggestiva e significativa.
Questi raggruppamenti di mestieri erano animati da una grande fede: veneravano ognuno il suo santo protettore, al quale era dedicata una cappella in una chiesa, e partecipavano, con la loro bandiera, effigiata con i simboli del santo stesso, alle funzioni religiose e alle processioni.
Conservo molti ricordi sulla figura e l’attività di artigiani che erano ancora attivi negli anni della mia gioventù, e dei quali oggi non c’è più traccia e quasi memoria.
In via Arborea, nel tratto tra via Turritana e via Capo d’Oro, c’era un masthru d’ascia, un falegname; la sua bottega era piccolissima, tre metri per tre circa, un po’ interrata (si dovevano scendere tre scalini per accedervi); si chiamava masthru Arturo; dalla mattina alla sera indossava un grembiule di pelle e un maglione di lana grezza.
Il bancone da lavoro occupava quasi tutto lo stanzino, lasciando pochissimo spazio; gli strumenti del mestiere erano pochi ma ben ordinati: pialle, cacciaviti, martelli, scalpelli, barattoli di colla, scatole di chiodi e viti di tante misure. Naturalmente non aveva corrente elettrica e nel suo angusto magazzino era costretto a lavorare anche di giorno a lume di candela. Quando lo guardavo, da ragazzo, vedevo un vero e proprio “Geppetto” della favola di Pinocchio.
I prodotti del suo lavoro erano spesso esposti sulla strada, subito fuori dalla porta: sgabelli, cerchi di legno per il braciere (li goffi) e altri strumenti per le donne di casa: rocci di labà in terra, tauri pa labà i la bazza. Faceva anche riparazioni di finestre, persiane e porte. Oppure costruiva qualche mobile su richiesta e, il più delle volte, gli accadeva, quand’era terminato, di doverlo smontare perché, a causa della ridotta misura dell’ingresso, non riusciva a farlo uscire intero; poi lo riassemblava in strada.
Questo il ricordo che ho di un piccolo artigiano che nella sua semplicità e modestia rendeva un servizio alla città. A quei tempi noi ragazzi avevamo la fortuna di poterci incantare al veder lavorare questi artigiani che meticolosamente, con l’uso delle mani e di qualche semplice attrezzo, creavano oggetti che adesso escono unicamente dalle fabbriche e sono fatti il più delle volte con materiali sintetici, artificiali.
Mi è rimasto impresso anche il ricordo di un armaiolo, un certo Manganesu, che aveva la bottega all’inizio di via Turritana, dove attualmente si trova una friggitoria. Il magazzino era grande e profondo, col pavimento in tavole di legno; da fuori non si riusciva a distinguere l’interno, che era totalmente buio, ma il padrone era facile trovarlo intento a lavorare sul gradino dell’ingresso: teneva stretto in una morsa portatile un tronchetto di legno che intagliava e limava di continuo, fino a farlo diventare un lucido calcio di fucile. Io e i miei amici ci appassionavamo nell’assistere a questo “miracolo”, nell’osservare come l’oggetto prendeva piano piano la forma che soltanto il maestro aveva in mente; e condividevamo la soddisfazione nel vederlo finalmente realizzato.
Quest’uomo era sempre vestito con una tuta blu, era anziano e piuttosto burbero, tant’è che noi evitavamo di disturbarlo quando era intento nel suo lavoro, e lo guardavamo in silenzio. A volte interrompeva il lavoro, per motivi che a me allora sembravano da poco, mentre oggi mi fanno pensare che fosse nel giusto e fosse dotato di un buon senso civico. Ad esempio, se passava una carrozza e il cavallo si bloccava per fare i suoi bisogni davanti alla sua bottega si adirava molto e, oltre a lanciare improperi contro il conduttore, andava in cerca di un vigile per chiedere l’immediata ripulitura del fondo stradale. Le discussioni si protraevano estenuanti, era capace di arrivare anche alla denuncia diretta di chi, secondo lui, infrangeva le norme della convivenza.
Quasi tutti i giorni se la prendeva con gli spazzini (mundadori), li rimproverava di non essere abbastanza abili nel loro mestiere, o perché sollevavano troppa polvere, oppure perché lasciavano tracce di sporcizia.
Insomma ogni pretesto era buono per protestare, senz’altro a buon diritto, anche se in quei momenti trascurava il suo lavoro, con la relativa perdita economica. Ma la soddisfazione di dire a tanti ciò che dovevano fare per ottemperare ai propri doveri lo faceva sentire orgoglioso: lo si vedeva chiaramente perché di tanto in tanto assumeva atteggiamenti di manifesta altezzosità.
A quei tempi lo giudicavo con sufficienza, adesso riesco ad interpretare meglio questi suoi interventi: oltre alla sua arte di bottega riusciva a far valere i suoi diritti nei confronti di chi aveva il dovere di tutelarglieli. Ai giorni nostri chi interviene più per cose del genere? Sono rarissimi coloro che dedicano il tempo ai difetti dell’amministrazione pubblica, del decoro e della sicurezza della città. Non mi meraviglierei di vedere una persona distesa per terra per un malessere e i passanti andare diritti sulla propria strada il più in fretta possibile, facendo finta di nulla.
Un altro artigiano che non posso dimenticare è il barbiere che esercitava la professione sotto casa mia. Si chiamava Gesuino, ero amico dei suoi figli.
L’arredamento della sua bottega era costituito per intero da suppellettili e attrezzi dell’epoca: due sedie girevoli in legno con poggiapiedi, sputacchiere e lavandini; quindi pettini, forbici, perette col borotalco, contenitori in metallo per l’acqua e l’alcool, rasoi ed arnesi per l’affilatura, tra cui il famoso bastone di ferula tagliato a metà, oltre che il bastone con la pelle di cuoio.
Il laboratorio era frequentatissimo fin dalle prime ore del mattino, tanto che apriva all’alba: la maggior parte dei suoi clienti usavano farsi sbarbare prima di andare al lavoro. Non era certo una clientela di bancari o di impiegati, almeno in quelle ore, ma di lavoratori che andavano in campagna, al mercato o nei negozi sparsi per la città.
Era un’attività piuttosto redditizia, a quanto ricordo, c’erano gruppi di persone che aspettavano fuori dalla bottega e passavano il tempo chiacchierando, in attesa di essere servite; questa attesa favoriva tra l’altro l'attività di un altro esercizio adiacente, l’antico “botteghino” di vini e liquori (vindioru) gestito da Antonio Pinna, detto in un primo tempo Biancasella, più tardi Bagassedda: i clienti della barberia andavano a bere un “cicchetto” per trascorrere meglio il tempo dell’attesa.
Anche il nostro Gesuino, il barbiere, era un assiduo frequentatore del botteghino, però sempre dietro l’invito del cliente al quale aveva appena reso il suo servizio. Solo adesso mi rendo conto quanto fosse rischioso farsi radere la barba da lui, dopo tanti clienti serviti; di certo la fermezza della mano non doveva essere buona, tant’è vero che ricordo alcune guance affettate e tamponate con emostatico (pietra allume) e cotone ed alcool.
I clienti che subivano questi imprevisti non si preoccupavano poi tanto perché nei loro discorsi a voce alta, mentre andavano al botteghino premendosi il cotone in viso, li sentivo dire: «Gesuino m’ha dittu chi v’aggiu la peddi isthracca, debu falla ripusà di più. Boh! Beh! Bimmuzi un vinu par abà».
Sono certo che anche molti lettori ricordano con un po’ di nostalgia cose, persone e avvenimenti ormai perduti e non più recuperabili, ma che sono pur sempre da portare come esempio di semplicità ed umiltà ai giovani d’oggi, sempre pieni di mille esigenze anche se hanno ottenuto tanto senza dover competere con nessuno: hanno avuto tutto e si comportano come se non avessero ricevuto nulla. Mi sembra che la morale di questi ricordi sia quindi che è bello conquistare ciò che si desidera, perché se lo si ha con troppa facilità non si prova soddisfazione né si matura.
Tino Grindi
[novembre 1997, inedito]