martedì 27 ottobre 2015

Racconti: IL TAVOLO DEI MORTI

A cura di Elisa Casu

Luisigheddu si divertiva a far girare la vecchia marroccula (trottola in legno) sul tavolo di cucina, intorno alla candela che ogni volta che la vedeva roteare minacciosa sembrava la volesse schivare abbassando improvvisamente la sua calda fiamma per poi risollevarsi con orgoglio. Al vecchio orologio a pendolo appeso sopra la cappa ingrigita del camino mancavano ormai pochi minuti alle 6, e proprio al primo rintocco ecco che il bambino sentì girare la chiave nella pesante serratura della porta e come una saetta corse incontro fra le braccia stanche della mamma, che anche quel giorno aveva terminato la giornata di lavoro dai signori Matilde e suo fratello Antonio. “Mà, ma itte m as battidu oe?” (Mamma cosa mi hai portato oggi?) E cosi dicendo rovistava avidamente nella tasca del grembiule nero a fiorellini bianchi della mamma.La donna facendosi cadere pesantemente sulla sedia di paglia di fronte al camino, tolse da sotto lo scialle marrone un piccolo melograno, che illuminato dal bagliore delle fiamme nel camino mostrava il suo sorriso facendo un pò rabbrividire il bambino, in fin dei conti mancava ormai poco a sa die de sos mortos (il giorno dei morti).E mentre insieme alla mamma sgranavano il succoso frutto, con le mani rosse il bambino faceva cadere in bocca i semi di melograno e intanto chiedeva curioso quando avrebbero apparecchiato per i morti.La mamma sorrise, passandogli fra i capelli spettinati la sua mano ancora nera del lucido da scarpe che signor Antonio si ostinava a farle usare quasi ogni giorno pro sos cambales, orgoglio di una ricchezza e di uno sfarzo che ormai appartenevano già al passato.

Diaulu e presse fizzu mè, a crasa aisetta (Non aver fretta figlio mio, aspetta a domani).Signora Matilde, la signora presso la quale lavorava la donna, non si era mai sposata, nonostante fosse una gran bella donna, di lei infatti si diceva che da ragazza avesse i capelli più lunghi e lucenti fra tutte le ragazze del paese, folti e resistenti come una criniera di cavalla, e proprio come una cavalla era il suo carattere che nessun cavaliere riuscì mai a domare. Si parlava però di un soldato che durante la guerra si innamorò di lei, giurandole eterno amore e chiedendola in sposa prima di partire al fronte. Di signor Antonio, suo fratello, nessuno osava immaginare come un uomo cosi avido potesse aver avuto mai un amore, la gente a cui faceva firmare le cambiali vedeva in lui più che altro una sanguisuga che succhiava dalla disperazione della gente la poca dignità rimasta.Ma agli occhi di Luisigheddu i signori brillavano non tanto per i loro animi quanto per l’argenteria della loro villa, i grandi quadri de sos giajos (antenati) appesi nella parete di fronte al grande camino e aspettava il momento in cui avrebbe finalmente accompagnato la mamma a preparare sa banca pro sos mortos nella grande villa (il tavolo per i morti).
Il bambino seduto nella poltrona, approfittava il fatto che i signori portassero i fiori alla tomba di giaju e giaja (i nonni) per poter osservare la mamma che preparava il tavolo rotondo in mogano rossiccio per la notte dei morti.  La donna con gesto deciso spiegava la tovaglia intagliata a piquet, metteva i due piatti di fine porcellana, affiancava i tovaglioli in raso giallo e completava con i calici di cristallo. Non osava chiedere il perché mancassero le posate, sapeva già, mentre un brivido gli attraversava la schiena, il motivo di tale assenza, e ci pensava la mamma ogni volta a ricordarglielo: “Luisighè attenzione a no ponnere sos burteddos o sas forchettas ca sos mortos si poden punghere e punghere puru a nois (Luigino stai attento a non mettere i coltelli e le forchette poiché i morti potrebbero pungersi o pungere noi).Messo al centro il portafrutta a cascata in argento, il lavamano con la pasta asciutta ancora calda, il sigaro toscano ancora incellofanato (sarebbe stato uno spreco aprirlo) e la bottiglia di vino la donna lo guardava ancora un pò a distanza, contenta rimetteva lo scialle marrone sulle spalle e preso per mano il bimbo lasciava la grande casa per avviarsi verso casa, la sua di casetta.Luisigheddu apparecchiava da solo pro sos mortos de domo (i morti di casa), la mamma sapeva che si sentiva l’uomo di casa e lo lasciava fare mentre lo guardava accovacciata nella sedia di paglia rotta dando le spalle al camino.Il tavolo era ben diverso da quello dei signori, ma non meno dignitoso: 3 piatti sbeccati: unu pro giaju, diceva Luisigheddu, unu pro giaja e unu pro bisaja bonanima (uno per nonno, uno per nonna e uno per bisnonna buonanima) In chelu che sian (che riposino in cielo), sospirava in preghiera la mamma.  La tovaglia era ricamata da qualche rattoppo, al centro del tavolo un lavamano cun sos ciccioneddos (gli gnocchetti), fatti con amore dalla donna uno per uno su un vetro spesso a scalanature, dalla tipica forma di conchiglia allungata. Il bambino aggiunse un fiasco di vino rosso, una sigaretta storta dall’anno prima, un pò di latte dentro la tazza di smalto sbeccata, 3 pappassini, un grappolo d’uva bianca e un tozzo di pane.Il bambino soddisfatto diede un ultima controllata in giro, prese lo spiedo appoggiato al camino e lo nascose con cura.

 La mamma lo guardò con approvazione e insieme si stesero sopra il lettone in religioso silenzio dopo aver acceso il lumicino sul piano polveroso del camino. La notte arrivò presto. Il maestrale sembrava capisse che dovevano arrivare numerose visite nelle case del paese, e urlava quasi riecheggiando dei gemiti dei morti, soprattutto quelli dimenticati che arrivavano e trovavano tavoli vuoti e lumicini spenti.La notte la porta della casetta non era stata chiusa a chiave per cui il vento con facilità vi soffiò dentro invitandoli ad entrare.  Per primo entrò giaju, un ometto dalla schiena ricurva dal tanto lavoro svolto sulla terra, e dagli occhi di un verde azzurro che curiosi cercavano intorno, si tolse la ciccia a quadri e mostrò il luccichio del dente d’argento quando sorrise contento guardando il tavolo, e vedendo che non si erano dimenticati di lui. Senza parlare l’uomo si voltò verso la moglie che zoppicando lo seguiva prendendolo a braccetto, anche lei sorrise, tirandosi dietro i ciuffi dei lunghi cappelli neri raccolti in un morbido mogno. Alla fine comparve anche lei bisaja (bisnonna), si avvicinò leggera ai due che dormivano e non potendoli toccare ne volle sentire ancora una volta i loro profumi. Giaju annusò il profumo del vino che tanto amava, e riconobbe che era quello del compare Michelinu cantas buffadas umpare! (quante bevute insieme) pensò. La moglie guardò i polposi chicchi d’uva e il pane posto accanto, quante mangiate de ua cun pane! (di uva con pane)e per ultimo la bisnonna desiderò annusare tanto sa suppa de latte (zuppa di latte). Era già ora di andar via, l’uomo volle ancora rivolgere un ultimo sguardo a quella sigaretta storta che aveva in vita fumato, o meglio diceva la moglie faceva fumare agli altri. I tre prima di uscire, richiamati dal sibilo del maestrale che minacciava di chiudere la porta, guardarono con nostalgia e immenso amore madre e figlio abbracciati sotto la coperta a quadri, la stessa che aveva riscaldato le loro notti e benedicendoli, lasciarono la casa, la loro casa, contenti di non essere stati dimenticati.

Il maestrale provò a bussare alla porta dei signori Antonio e Matilde, vi entrarono in due, un vecchio ben vestito con un cilindro di raso nero in capo e una profonda tristezza che celava i suoi lineamenti, a fianco a lui un giovane soldato, con l’uniforme pesante verde. Il vecchio guardò l’argenteria, osservo i fratelli che dormivano avrebbe voluto dire cosa aspetta a chi è avido, ma non poteva e triste si allontanò senza neanche annusare il profumo della pasta posta al centro del tavolo apparecchiato. Il soldato aveva un bel viso, sorrise osservando con amore la donna che dormiva con a fianco nel comodino la sua foto, l’unica che le aveva lasciato prima di morire al fronte, ma gli bastò per capire che non si era dimenticata di lui. Si avviarono ma mentre lasciavano la casa un gemito forte attraversò lo spirito del vecchio: era la visione di quel sigaro, ancora confezionato. L’avidità del figlio era cosi tanta da non farle assaporare il profumo del Toscano, che tanto amava, unico piacere che si era concesso in vita. Strillò e il gelo di quel strillo riecheggio nella grande e lussuosa casa, svegliò i due fratelli che credettero fosse il miagolio del gatto e lesti si riaddormentarono. Ma quello strazio raggiunse per un attimo anche le case povere intorno alla grande villa, vi abitavano cuori poveri e semplici, che rabbrividirono, si fecero il segno della croce e pregarono con un requiem eterno per quell’anima in pena che ancora in quella grande casa gridava e urlava ogni anno puntualmente il grande dolore e la profonda ferità creata negli animi dall’avidità umana.