venerdì 4 dicembre 2015

LA GIOVANE AMAZZONE


A CURA DI: Elisa Casu
                                       

Narrare la Sardegna




La ragazza osservava incantata il luccichio del suo uncinetto che nervosamente infilava e sfilava tra le rade maglie della sciarpa di lana che stava ultimando, luccichio che ricordava tanto uno spiritello saltellante che stregava l’atmosfera tutto intorno al camino. Era l’unico momento di riposo che la giovane si concedeva la sera, fermando il tempo delle faccende domestiche e del lavoro sui campi, sempre inchinata a raccogliere i frutti della terra colorati dal sole e coperti dalla polvere, ormai turgidi e maturi al tatto delle sue delicate mani.
Ogni giorno al ritorno dalla campagna l’aspettava l’odiata scopa, il tinozzo con l’acqua mischiata all’aceto per disinfettare e profumare la grande stanza del casolare di campagna. Ma la casa era la sua prigione, era assai felice infatti quando stava all’aperto, anche al freddo e al gelo, poco importava. Era bramosa di respirare l’aria frizzante che arrivava dalle montagne appena innevate del Gennargentu.
Questo era il suo paradiso, una vecchia panca posta a fianco della porta di legno della casa, luogo privilegiato da cui contemplare l’immenso panorama della vallata che si apriva ai suoi occhi, che dava ad un certo punto finalmente spazio alle colline che leste si arrampicavano lasciando poi spazio alle montagne. Gli uliveti ordinati e folti lasciavano cosi posto ad irti boschi selvaggi che pareva celassero con gelosia i segreti dei loro aliti e dei gemiti di vita e di morte, consumati al riparo di un lentischio e di un cespuglio profumato di bacche di mirto. 
La ragazza osservava la montagna con desiderio, quasi vergognandosi dei suoi pensieri che si addentravano tra i sentieri e le caverne nascoste dell’enorme rilievo roccioso.
Il padre, unico affetto, con cui condivideva la sua giovane vita, era assai geloso di lei, della sua bellezza, delle labbra carnose, delle folte sopracciglia nere che incorniciavano quegli occhi vispi neri anch’essi più della pece, e desiderosi più che mai di scoprire, di fuggire.
Il paese era noto per la sagra delle castagne che immancabilmente ogni anno si ripeteva. Il frutto carnoso abbondava nelle campagne del padre della ragazza, e a giorni sarebbero arrivati gli uomini per la raccolta. Per la prima volta la ragazza pensava al loro arrivo con euforia, calore, immaginando già i loro corpi bronzei chinati a raccogliere gli spinosi frutti. In fin dei conti anche lei si sentiva un pò come quelle castagne, fuori ispida, dentro dura di carattere, ma che al calore del fuoco dell’amore avrebbe certamente donato la sua profonda dolcezza.
Il padre la rapì alla realtà: era ormai ora di pranzo, aveva fame e le mani ancora sporche e bluastre dalla raccolta delle olive. L’uomo aveva un solo desiderio lavarsi e mangiare, al tavolo che puntualmente la figlia imbandiva, stavolta con grosse fette di pane nero da inzuppare nella cremosa zuppa di ceci che ribolliva sulla pentola, sopra la brace del camino. Mentre addentava con avidità la fetta di pane, senza alzare lo sguardo si rivolse con autorità alla figlia: “ Crasa benin sos pizzinnos , preparanos s’usthu e lassalu fora , chi benzo deo a lu leare! Abbaida a tie, no bessas e no andes a caddu”! (domani verranno i ragazzi, prepara il pranzo e lasciarlo fuori dall’uscio, non uscire e non cavalcare).
La figlia, fece di si con la testa ma i pensieri seguivano un altro sentiero, e in silenzio si portò alla bocca il cucchiaio colmo della zuppa fumante. 
La gelosia del padre all’inizio la lusingava, la faceva sentire protetta e importante, ora la opprimeva. Nei mattini seduta su quella panca osservava il cielo immenso, e si perdeva a seguire i voli maestosi di un’astore , il cui nido era sicuramente fra le fessure nascoste della vetta più alta. Lo vedeva padrone di quel cieli, padrone della sua libertà. Avrebbe anche lei voluto volteggiare, librarsi nell’aria sentirsi leggera e libera. 
L’indomani i sacchi di iuta vuoti erano legati ai lati de s’imbasthu ( sella) del cavallo, la ragazza mentre buttava via l’acqua sporca dal secchio sulla canaletta a fianco del portone, osservava il padre mentre si dava la spinta sui reni per salire in sella. Amava i cavalli, ma il padre le vietava di cavalcarli, ma a volte lei lo faceva di nascosto, era diventata talmente brava che cavalcava senza sella, incurante della dolorosa tensione delle gambe nel seguire l’andatura del cavallo. Quella mattina dopo che il padre si diresse verso il bosco per raggiungere i ragazzi, lei rientrò in casa, si bagnò il viso con acqua profumata ai petali di rosa, si passò le mani lungo il collo raggiungendo l’insenatura dei suoi caldi seni. Si sentiva rinfrescata, profumata, si sentiva viva! Indossò il completo da amazzone che di nascosto le aveva regalato sua zia. Davanti allo specchio chiuse il penultimo bottone della camicia nera che a malapena conteneva il bel seno. Infilò i pantaloni di velluto e la giacca di velluto, che riprendevano la stessa tonalità della camicia. Tirò le stringhe ai gambali neri, sciolse i lunghi capelli e si ammirò allo specchio. Andò nella stalla mise le redini a Bentu ( Vento) un bellissimo esemplare di anglo arabo sardo e lesta lo cavalcò. Raggiunse il sentiero impervio che portava al bosco. A quell’ora il padre aveva già dato le consegne ai ragazzi e si era diretto dall’altra parte del monte per controllare le sue capre.
La ragazza scese da cavallo con le gambe ancora tese e doloranti dal galoppo, sentiva il suo cuore battere, strinse fra le mani le redini del cavallo accarezzandone il dorso sudato. Iniziò a sentirne le voci, scostò un cespuglio di lentischio e li vide: due corpi chinati, le spalle possenti, la nuca rossastra. Sorrise, in particolare uno di loro attirò la sua attenzione. Ne osservo le spalle, e sorridendo si soffermò sulle natiche che le ricordavano tanto la polpa dura e turgida dei pomodori caldi sotto il sole di luglio. Vide le mani del ragazzo che raccoglievano i frutti spinosi dai rami più bassi, e desiderò per un lungo attimo di essere come quel frutto spinoso tra le sue mani. Il cavallo interruppe il flusso dei suoi desideri, e si impennò spaventato da una lepre che sbucò dalla sua tana. La ragazza con fatica lo tranquillizzò ma i ragazzi si accorsero di lei, la guardarono e quel ragazzo la fissò con curiosità ammirando la visione della giovane amazzone del bosco. Si mosse per andarle incontro ma lei scappò, perdendo però il suo braccialetto di cuoio intrecciato. Il ragazzo lo raccolse, lo strinse fra le mani e lo portò alla bocca sentendone il profumo di acqua di rose.
La ragazza cavalcò, si sentiva tutt’uno col cavallo, povero Bentu incitato ad una lunga corsa fino alla riva di un rio. Qui la ragazza scese da cavallo e si buttò sull’erba ormai esausta, e rise, rise rotolandosi sull’erba bagnata. Era contenta, felice, libera. A pancia in su osservò il cielo, carico quella mattina di nuvole spazzate velocemente dal vento di maestrale e lo rivide: era l’astore che volteggiava librandosi nel vento, ma stavolta non era l’unico padrone del cielo era con un altro astore, probabilmente una femmina che inseguiva in infinite girandole d’amore.
Il padre la sera al ritorno trovò come sempre la tavola imbandita, il fiasco di vino, su pane frattau e sul tagliere un bel pezzo di lardo bianco. Come sempre parlò poco, ma osservò la figlia, la vedeva diversa. Notò i capelli sciolti ne senti il profumo di rose. Ebbe paura, senti un groppo alla gola. Fermò la mano all’altezza del mento col pezzo di pane e lardo e chiuse gli occhi, l’angoscia si impadronì di lui, ricordò la stessa espressione e lo stesso profumo della moglie quella notte. Come impazzito si alzò si avvicino da lei e presala per il braccio le chiese: “ Ses andada a caddu beru?Fisthi inie?)( Hai cavalcato vero? Sei andata da loro?).
La ragazza si divincolò da quella stretta lo guardò con sfida e serrando le labbra tirò indietro con orgoglio una lacrima calda e scappò via.
L’indomani il padre andò alla stalla, ma Bentu non c’era e non c’era neanche la ragazza. Era andata a riprendere il suo bracciale, mentre cavalcava verso il bosco l’emozione di rivedere quel ragazzo riscaldava tutto il suo giovane corpo. Raggiunse il sentiero impervio del bosco, scese da cavallo fece appena in tempo a scostare il cespuglio che sentì alle spalle una calda mano cingerle i fianchi. Con l’altra mano il bel giovine avvicinò il suo viso alla sua bocca, con denti perfettamente bianchi: era il ragazzo del bosco. Mentre il padre chiamava a squarciagola la ragazza il bosco avvolse i due ragazzi nel loro segreto, celandone gli infiniti gemiti d’amore. Mentre in cielo volteggiava ora l’astore con i suoi richiami d’amore verso la sua femmina che ,dopo tanti volteggi librando nell’aria si arrese infine al suo richiamo. Il padre sentì il grido d’amore dei due rapaci, li osservò e finalmente capi che avrebbe dovuto rendere libera la sua creatura, solo cosi non l’avrebbe persa come accadde quella notte con la moglie, per troppo tempo vittima delle sue briglie e che decise di cavalcare haimè verso quel bosco pur di 
riprendersi la sua libertà.