A cura di Giuseppe Idile ( Capitano)
Nel 1995 Francesco Cossiga rilasciò a Lucio Caracciolo una lunga intervista nella quale parlava dei "misteri d'Italia" e della politica estera del nostro paese. Per capire meglio l’ideologia politica di base di Francesco Cossiga, mio stimato concittadino, sarebbe opportuno leggere con attenzione.
COSSIGA Per capire il declino attuale conviene anzitutto analizzarne le
origini. E dunque ricordare quale fosse la nostra collocazione geopolitica
durante la guerra fredda. Noi eravamo un paese doppiamente di confine: c’era un
limes esterno, con i paesi dell’Est, ma allo stesso tempo esisteva un limes
interno, giacché la cortina di ferro attraversava l’Italia e la spaccava in due
– «occidentali» amici dell’America e «orientali» amici dell’Unione Sovietica.
L’Italia
era segnata da una contrapposizione ideologica e di civiltà. Gli equilibri
politici nazionali erano condizionati dalla costellazione geopolitica mondiale.
Ricordo ancora un colloquio con Giuseppe Saragat, negli anni Cinquanta: «Ma
perché cosa credi che io abbia rotto l’unità con i socialisti, se non per
scegliere l’America, l’alleanza Atlantica, l’Occidente?» È chiaro che in questa
condizione l’Italia era più un oggetto che un soggetto della politica
internazionale. La scelta atlantica era obbligata. Su di essa convergevano
l’interesse nazionale italiano e l’interesse ecclesiastico vaticano: non solo
non eravamo in grado di garantire la nostra indipendenza senza l’ombrello
atlantico, ma esso era necessario anche a proteggere la sicurezza della Santa
Sede, l’organo centrale della Chiesa cattolica incastonato nel nostro
territorio. Il fatto curioso è che l’opzione atlantica del Vaticano era più
ecclesiastica che cattolica. Corrispondeva agli interessi di sicurezza della
Santa Sede, molto meno al sentire di buona parte del cattolicesimo politico
italiano. Nella Dc, la sinistra dossettiana era neutralista. Poi si allineò con
De Gasperi, ma solo perché la neutralità si era rivelata impraticabile. Il
nostro fu un atlantismo di necessità, un atlantismo minimalista. Questo spiega,
fra l’altro, perché noi non siamo diventati una potenza militare al livello di
paesi di analogo peso economico e demografico, tipo Francia o Gran Bretagna…
LIMES Forse anche perché avevamo perso la guerra…
COSSIGA Ma agli americani non importava nulla che avessimo perso la guerra!
Loro ragionavano nel nuovo contesto bipolare. O di qua o di là. Su di noi ha
sempre pesato il sospetto del neutralismo. I nostri alleati ci consideravano
atlantisti per necessità, non convinti.
LIMES Non si fidavano di noi?
COSSIGA Non completamente. Basti ricordare che nella rete atlantica di Stay
Behind entrò prima la Germania dell’Italia. A noi non ci volevano. Entrammo
solo grazie alla mediazione della Francia.
LIMES Intende dire che furono i francesi a sponsorizzare Gladio?
COSSIGA Gladio è un’invenzione. Lei sa benissimo che non c’è un documento che
parli di Gladio. No, io intendo la rete atlantica di Stay Behind – ricordo
l’acronimo: «S./B.» – che avrebbe dovuto organizzare la resistenza nei paesi
alleati in caso di aggressione dall’Est. Un organismo di non grandissima
importanza, creato sulla base dell’esperienza dello Special Operation Executive
voluto da Churchill e dell’OSS americano.
LIMES Quanto contava la presenza del maggiore partito comunista
dell’Occidente nella percezione dell’Italia come paese inaffidabile?
COSSIGA Noi avevamo metà del paese dall’altra parte. I concetti fondamentali
su cui si incardina l’unità nazionale dei nostri partner occidentali – patria e
libertà da noi non erano valori condivisi. Su di essi l’Italia era spaccata. I
comunisti avevano un’idea di patria diversa da quella che avevamo noi
democristiani, sull’altro versante della cortina di ferro interna. Non erano
traditori della patria. Semplicemente, ne avevano un’altra concezione. In
entrambi, comunisti e democristiani, il concetto di patria era fortemente
temperato dall’influenza del comunismo internazionalista, d’un lato, e della
Chiesa, dall’altro. La verità è che nell’Italia della guerra fredda c’erano
quattro tipi di lealtà, due da una parte e due dall’altra della frontiera
interna: noi democristiani eravamo fedeli all’Italia e all’Alleanza Atlantica
ma anche, in gran parte, alla Chiesa; loro comunisti erano divisi fra fedeltà
nazionale e legame critico con il campo sovietico. Le radici della tragedia
italiana sono tutte qui. Solo quando riusciremo a ricostruire un comune
sentimento di patria potremo riconquistare il nostro posto nel mondo
occidentale.
LIMES Per voi democristiani si poneva dunque un dilemma geopolitico e
morale: essere fedeli all’Italia o alla Chiesa?
COSSIGA Confesso che non abbiamo mai avuto il coraggio di affrontare
apertamente questo problema.
LIMES Ma lei personalmente …
COSSIGA Io non sono assolutamente un caso tipico di cattolico democristiano.
Sono stato educato in una famiglia schierata con la Repubblica durante la
guerra civile spagnola. Per me, cattolico liberale, il problema era già risolto
in partenza.
LIMES Ma per De Gasperi, per Moro, per Andreotti?
COSSIGA Distinguiamo. De Gasperi, educato in uno Stato vero come l’impero
austro-ungarico, era un cattolico laico, liberale. La sua scelta per il Patto
Atlantico era insieme politica e di civiltà. Moro era un realista. Accettò
l’atlantismo per ragionamento, non per convinzione. La scelta coscienziale di
Moro sarebbe stata certamente, come per Dossetti, in favore di un’Italia
neutrale. L’atlantismo di Andreotti fu frutto di una grande mediazione.
Andreotti coniugò bene – fedeltà alla Chiesa e fedeltà allo Stato. Sarebbe
molto interessante studiare la politica estera andreottiana e osservare quante
volte egli tenne conto, per ragioni di convinzione personale ma anche di
equilibri geopolitici, degli interessi della Chiesa.
LIMES Per esempio?
COSSIGA Prendiamo la guerra del Golfo. Io, come presidente della Repubblica e
capo supremo delle forze armate, non ebbi alcuna titubanza, se non per quel che
attiene a ogni coscienza pacifica e cristiana, a portare in guerra il mio paese.
Sapevo bene che non era questa la posizione della Santa Sede. Sono testimone
del fatto che invece questo per Andreotti fu un problema.
Lui era
preoccupato di coniugare le strategie italiana e vaticana più di quanto non lo
fossi io. E questo gli americani non lo apprezzarono. In realtà, la sindrome
dell’8 settembre non ha mai cessato di incombere su di noi, nella percezione
dei nostri maggiori alleati.
LIMES Vuol dire che lo stereotipo dell’italiano infido e traditore
contava in seno alla Nato più della minaccia comunista?
COSSIGA Le risponderò con un aneddoto. Quando ero ministro dell’Interno mi
occupavo naturalmente anche dei finanziamenti sovietici al Pci. La cosa non mi
turbava affatto. Io non mi sono mai scandalizzato perché i nostri comunisti
ricevevano soldi da Mosca. Durante una riunione di alti funzionari del
ministero, in cui si analizzava il trasferimento fisico del denaro
d’oltrecortina a Roma, a un certo punto domandai: «In che valuta commerciano?».
Risposta: «Dollari». «Allora lasciateli in pace!». La cosa divertente è che poi
gli americani andavano dai cambiavalute clandestini a ricomprarsi i dollari
mandati da Mosca a Botteghe Oscure. E sa perché? Non perché gliene importasse
nulla che i soldi arrivassero al Pci, per carità… No, il Tesoro americano
temeva che fossero falsi! Né mi sono scandalizzato quando abbiamo scoperto la
«Gladio Rossa», cioè l’organizzazione creata d’accordo con il Kgb dal Partito
comunista per salvare i compagni, portandoli fuori dell’Italia in caso di
pericolo. Ironia della storia, il termine usato dalla «Gladio Rossa» per
definire questa operazione era lo stesso adoperato da Stay Behind:
«esfiltrare». Ecco perché mi sento più laico dei comunisti: loro si
scandalizzano perché noi avevamo Stay Behind, mentre io non mi turbo affatto
per la loro «Gladio Rossa». Avevamo semplicemente lealtà diverse, nel ben
determinato contesto della guerra fredda. Come diceva la grande spia Philby,
«questa non è una guerra fra nazioni, è una guerra fra religioni; e io mi
schiero dalla parte dei miei compagni di fede».
LIMES Un paese doppiamente di confine, con quattro lealtà e due
sovranità – la nazionale e l’ecclesiastica: lei sta descrivendo l’estrema
complicazione della costituzione geopolitica italiana e la diffidenza che essa
suscitava nei nostri partner. Era quindi inevitabile il nostro basso profilo
internazionale?
COSSIGA È chiaro che noi potevamo giocare solo di rimessa. La nostra dimensione
di potenza era troppo limitata per immaginarci come un soggetto importante
sulla scena mondiale. Essere percepiti dai nostri migliori amici come dei
potenziali neutralisti certo non ci avvantaggiava. Ricordo che una volta, da
sottosegretario alla Difesa, scandalizzai i militari che mi stavano ascoltando
con una frase infelice: «Il nostro rapporto con l’alleanza Atlantica oscilla
tra il servilismo e il tradimento». Purtroppo era vero. Lo stesso schema si
riproduceva sull’altro versante del confine interno, fra i comunisti nostrani.
I quali erano ideologicamente e antropologicamente diversi dai sovietici. E
come noi eravamo guardati con sospetto dagli alleati occidentali, così loro non
piacevano affatto ai compagni orientali. Questa struttura geopolitica interna
finiva per spingere l’Italia verso una propria piccola Ostpolitik. Certamente
noi fummo il paese occidentale più attivo per favorire la distensione con
l’Est. La grande intuizione di Andreotti fu di collegarci alla Ostpolitik
vaticana – ecco un caso di perfetta coincidenza di interessi fra Italia, da
entrambi i lati della sua cortina di ferro, e Santa Sede.
LIMES Come spiega che questo paese vocazionalmente pacifista e
neutralista optò per gli euromissili? Può raccontarci come maturò quella scelta,
di cui lei fu protagonista in quanto presidente del Consiglio?
COSSIGA Effettivamente la scelta di avallare l’installazione degli
euromissili, nel dicembre 1979, appare singolare in questo quadro. Essa fu
determinante, in quanto la Germania aveva fatto sapere che avrebbe risposto di
sì solo se anche l’Italia avesse accettato di ospitare i missili a medio raggio
Pershing e Cruise. Noi democristiani fummo compatti, e anche laici e
socialisti. D’altronde l’Italia aveva sempre un rapporto speciale con la
Germania occidentale in seno all’Alleanza Atlantica, anche per i legami
privilegiati fra i due grandi partiti cristiano-democratici europei, la CDU e
la Dc. Ma la verità è che potemmo installare gli euromissili perché il Pci
rinunciò a un’opposizione frontale. Quando Ponomarev venne qui per convincermi
con le blandizie e con le minacce a rompere il fronte atlantico, l’altra faccia
della sua missione era di spingere i comunisti a scendere in piazza contro i
missili. Ma Berlinguer rifiutò.
LIMES Insomma Berlinguer le fece capire che non era contro gli
euromissili?
COSSIGA Berlinguer e io avemmo dei divertentissimi colloqui. Due cugini
sardi, che nel salotto buono del segretario di Enrico, Tonino Tatò, mangiando
panini al prosciutto preparati dalla padrona di casa, Giglia Tedesco,
discutevano di questioni strategiche e di missili, è una cosa che non
dimenticherò mai… Oggi posso dire che allora informai gli alleati che per far
passare gli euromissili avevo bisogno, non dico di una politica bipartisan, ma
almeno di informare correttamente l’opposizione. Per questo mi feci dire dalla
Nato ciò che era un segreto non comunicabile al Pci, e diedi garanzie
sull’affidabilità di Berlinguer. Devo dire che noi, per rispetto verso il Pci,
non approfittammo quanto avremmo potuto dei loro canali di comunicazione con
Mosca per conoscere le reali intenzioni del Cremlino e le sue covert operations
in Italia. Un giorno potrò raccontare come io stesso, dopo la caduta del Muro
di Berlino, mi preoccupai di impedire che il crollo dell’Unione Sovietica
creasse imbarazzo al Partito comunista italiano.
LIMES Ma questa Italia della Prima Repubblica era o non era un
semiprotettorato americano? Che margini di manovra avevamo?
COSSIGA Non si capisce nulla se non si parte dal fatto che la guerra fredda
era guerra. Non combattuta sui campi di battaglia, ma pur sempre una guerra. Da
cui l’Unione Sovietica è uscita sconfitta e poi distrutta. Da una parte, c’era
il dominio sovietico. Dall’altra parte, c’era una sovranità elastica americana.
Qualunque alleanza si impernia su una potenza egemone. Il grado di libertà
degli altri dipende dalla loro forza relativa nei confronti del leader. Noi
eravamo uno dei soggetti più deboli. Non dico che fossimo un protettorato
americano, ma insomma… Sarebbe interessante riesaminare da quest’angolo
geopolitico internazionale certi fenomeni che da noi sono stati classificati
solo come espressione della corruzione o della deviazione di apparati dello
Stato. Ad esempio, la P2. Io credo che la P2 fosse l’associazione degli ultrà
filo atlantici e filoamericani, naturalmente condita all’italiana. Lo so che va
contro lo stereotipo corrente, ma se non ci liberiamo degli stereotipi non
capiremo mai niente della nostra storia. E non potremo andare avanti. Noi avevamo
certamente dei rapporti speciali con gli americani. Anche per la presenza della
Santa Sede e del Pci, l’America era molto interessata alla stabilità
dell’Italia e interveniva ogni volta che fosse necessario colmare il nostro
deficit di Stato incapace di garantire la propria indipendenza.
LIMES In termini strategici concreti, che cosa vuol dire?
COSSIGA Vuol dire che siccome il nostro sistema interno della quadruplice
lealtà ci impediva di costruire un esercito forte, per gli americani eravamo la
loro portaerei nel Mediterraneo. A chi come me conosce per motivi di ufficio i
piani strategici della Nato in caso di aggressione dall’Est, questo ruolo
dell’Italia è molto chiaro. Noi eravamo la piattaforma per operazioni
strategiche degli alleati. Era previsto perfino l’arrivo di una divisione di
paracadutisti portoghesi!
LIMES E nei piani di attacco?
COSSIGA La Nato non ha mai avuto piani di attacco. Ha avuto piani di risposta
nucleare, ma non ha mai studiato l’aggressione all’Urss.
LIMES In caso di attacco del Patto di Varsavia l’Italia doveva essere
abbandonata ai sovietici?
COSSIGA Non c’è dubbio che gli americani volessero difenderci. Ma molto
sarebbe dipeso dalla tenuta del fronte interno, dalla scelta che avrebbe fatto
il Partito comunista. Se ricordo bene – sono informazioni che abbiamo avuto
dopo l’Ottantanove – i sovietici prevedevano di conquistare l’Italia abbastanza
rapidamente, in tre tappe. In una prima fase l’attacco sarebbe stato portato
lungo due direttrici, verso Padova e Bergamo, partendo dall’Ungheria, secondo
lo schema della Strafexpedition. Infatti, siamo venuti poi a sapere che durante
una riunione del Patto di Varsavia a Bucarest il ministro della Difesa
ungherese protestò con il sovietico comandante in capo delle forze del Patto
quando scoprì che il peso iniziale dell’attacco all’Italia avrebbe dovuto
essere sopportato dai suoi uomini, mentre l’Ungheria era sotto il tiro della
nostra aviazione in caso di ritorsione nucleare. E si accorse che era lo stesso
giochetto che gli avevano tirato gli austriaci nella prima guerra mondiale,
quando contro di noi avevano mandato avanti gli ungheresi! La seconda fase
prevedeva la costituzione di una sorta di Linea Gotica rovesciata; infine era
pianificato lo sbarco in Sicilia e in Sardegna. E infatti in caso di invasione
della Sardegna avremmo dovuto trasferire il comando di Stay Behind, lì
insediato, verso una località che non posso citare perché questo è uno dei
pochi segreti che la Nato è riuscita a farci rispettare.
LIMES E per i sovietici, quanto era importante l’obiettivo Italia?
COSSIGA È difficile dirlo. Però vorrei citare un fatto curioso. Ormai si sa
molto sulle operazioni di infiltrazione e disinformazione sovietiche nei paesi
alleati. Ad esempio, è accertato che molti dei cosiddetti scandali politici o
militari nella Germania occidentale erano orchestrati da agenti di Mosca. In
Italia, invece, c’è un buco totale. La penetrazione sofisticatissima del Kgb e
del Gru in America, in Canada, in Europa, occidentale, sembra non riguardare
l’Italia. Perché? Nessuno è mai riuscito a spiegarlo. Ma forse la ragione era,
e spero che i miei amici comunisti non se ne adombrino, che non ne avevano
bisogno perché c’era il Pci. E quindi gli interessi dello schieramento
comunista internazionale erano tutelati in Italia direttamente da Botteghe
Oscure. La presenza del Pci all’interno delle forze armate e di polizia era
tale che non c’era bisogno di altro.
LIMES Come si inquadra il terrorismo nel grande gioco internazionale
intorno all’Italia?
COSSIGA In tutta la mia vita politica io sono sempre stato un sostenitore del
carattere «nazionale» dei brigatisti rossi: è una pura fantasia collegare le Br
all’Est o anche all’Ovest. No, le Br erano italiane, sono nate e morte nel
nostro ambiente sociale e culturale. Esse sono state il prodotto della
conversione del Pci alla democrazia. Fin dal mito della «Resistenza tradita»
circolava una domanda sovversiva all’interno della sinistra che, bloccato il
canale Pci, trovò sfogo nelle Brigate rosse. Più in generale, il capitolo
terrorismo aspetta ancora di essere chiarito. Escludo però la mano del blocco
orientale nella sovversione di sinistra. Naturalmente escludere che i gruppi
terroristici fossero pilotati da Mosca non significa che essi non potessero essere
infiltrati da agenti stranieri. Ma infiltrati per sapere che cosa fossero, non
per guidarli, che era impossibile. Del resto un giorno si scoprirà una cosa
affascinante: come il Kgb avesse infiltrato il Partito comunista per
controllarlo, certo senza successo! Ma so con certezza che fra i nomi di
italiani sospettati di lavorare per Mosca non c’erano membri del Pci, né
persone che avessero anche solo collegamenti esterni con esso.
LIMES E le stragi sono anch’esse autoctone, oppure si inseriscono in un
disegno geopolitico internazionale?
COSSIGA Le stragi restano avvolte nel mistero. Io non mi meraviglierei però
se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di servizi di paesi alleati o
neutrali, non solo nemici, avessero potuto avere interesse a mantenere alta la
tensione in Italia tra il fronte comunista e quello anticomunista. E quindi a
tenere basso il profilo geopolitico dell’Italia. Sulle stragi ci sono due
concezioni estreme, entrambe sbagliate. Quelli che, come i fratelli Cipriani,
leggono tutto in chiave di teoria del complotto – la dietrologia come
storiografia. E quelli che rifiutano qualsiasi ipotesi di strategia
internazionale nello stragismo. Fra i due estremi passa la verità che ancora
nessuno conosce.
LIMES Spesso si è parlato di collegamenti fra stragismo, terrorismo e
mafia. Secondo lei il fatto che Cosa Nostra controllasse e controlli un’ampia
fetta del territorio nazionale ci penalizzava nell’ambito alleato?
COSSIGA Ci penalizzava come immagine, certo. Ma la mafia non ha mai
costituito un pericolo per l’Alleanza Atlantica. Anzi, tendo a pensare il
contrario… Ma certamente era e resta un pericolo per lo Stato italiano.
LIMES Per tornare alla questione iniziale, lei mi pare stia confermando
che c’era un interesse generale, dell’Est ma anche delI’Ovest, a che l’Italia
contasse poco. E che anche le bombe potevano servire a questo scopo.
COSSIGA Sì. Ma al tempo della guerra fredda noi avevamo un grande vantaggio
che oggi abbiamo perduto. Avevamo una politica estera di riferimento, quella americana
e della Nato. In questo ambito, potevamo sfruttare l’utilità marginale, la
rendita geopolitica di essere un paese di frontiera che aveva al suo interno un
confine e che, inoltre, ospitava sul suo territorio la Santa Sede…
LIMES Ma eravamo veramente la frontiera orientale della Nato? Non era la
Jugoslavia il primo paese che avrebbe dovuto fronteggiare un eventuale attacco
da Est?
COSSIGA È vero. Non potremo mai sopravvalutare il ruolo della Jugoslavia. Non
avremmo potuto fare la nostra politica di basso profilo nell’ambito
dell’Occidente – che voleva dire evitare di spendere per un vero esercito e
affidarsi alla protezione esterna – se non ci fosse stata la creatura di Tito.
Noi dobbiamo essere eternamente grati alla Jugoslavia per averci evitato il
contatto diretto con il Patto di Varsavia. Se non vi fosse stata la Jugoslavia
avremmo dovuto destinare ben altra quota del nostro reddito alle armi, a spese
del benessere generale.
LIMES Non tutti erano consapevoli, da noi, dell’importanza di questo
tampone geostrategico…
COSSIGA Io certamente sì. E credo che quando si riscriverà la storia d’Italia
nel dopoguerra dovremo rivalutare la funzione- chiave della Jugoslavia. Nei
piani segreti del Patto di Varsavia la Federazione titina era considerata paese
nemico. Però è vero che non tutti ne prendevano atto. Ricordo che quando, da
presidente del consiglio, fu portato alla mia decisione un accordo bilaterale
economico con la Jugoslavia, alcuni funzionari mi fecero notare che c’erano dei
problemi riguardanti il commercio di tabacco. Io chiesi loro se non fossero
diventati matti. Ma come, con un partner di questa importanza noi ci
disperdiamo negli economicismi, nelle diatribe sul tabacco?
LIMES Adesso però questo relativo comfort geopolitico è finito.
COSSIGA È finito per sempre. Per questo, appena crollato il Muro di Berlino,
io lanciai l’allarme. Dopo l’unificazione della Germania, nulla sarebbe stato
più come prima, nella politica interna come in quella estera. Ma mi presero per
matto, preferirono continuare a far finta di niente. Che cosa è cambiato,
infatti? Primo, l’America è meno interessata a un’Europa non più terreno di
contesa con la superpotenza sovietica. Eppoi le macerie del Muro ci hanno
riportato alla realtà sull’Europa, al di là della retorica: altro che soggetto
politico-strategico, in realtà era e resta una specie di Comecon rovesciato,
una costruzione puramente economicistica. Secondo, l’indipendenza della Chiesa
non ha più bisogno di essere protetta, perché non è più minacciata. Terzo, è
scomparso il Pci. E non c’è più nemmeno la Dc, il che vuol dire fine del
rapporto speciale con la CDU, e quindi con la Germania. Con gli Stati Uniti
resta un legame particolare, ma con noi nella parte dell’intendenza. Che cosa
facciamo per i nostri alleati nel conflitto bosniaco? Offriamo le basi
militari.
LIMES Come mai non abbiamo mai chiesto un dazio agli americani? Non
abbiamo nemmeno ridiscusso gli accordi segreti sulle loro basi in Italia, roba
da anni Cinquanta…
COSSIGA Il dazio era la protezione che ci garantivano. E che adesso non c’è
più.
LIMES E allora secondo lei che possiamo fare?
COSSIGA Dobbiamo porci la domanda che abbiamo sempre evitato: qual è il
nostro interesse nazionale? Come possiamo difendere i nostri interessi in un
mondo così complicato? Prima avevamo dei riferimenti obbligati: la nostra
politica militare era quella della Nato, la nostra politica economica era
quella della Comunità europea, la nostra politica ideologica era quella della
Chiesa. Al massimo ci prendevamo qualche piccola libertà, grazie alla sicurezza
strategica garantitaci dall’esterno. E adesso che facciamo? Prima apriamo un
dibattito democratico sull’interesse nazionale, meglio è. Il senso del mio
allarme, subito dopo l’Ottantanove, era tutto qui. Ero e sono spaventato dalla
divisione del paese. Anziché unirsi, dopo la fine della guerra fredda l’Italia
si è ulteriormente spaccata. Le vecchie armi ideologiche non sono state
deposte. Ma dobbiamo capire che o riusciamo a riunificare la comunità nazionale
intorno ai valori fondamentali, all’idea di patria e all’interesse nazionale,
oppure non potremo più fare politica estera. Prendiamo un esempio concreto: il
nostro interesse nazionale è di combattere la mafia. Ma sembra quasi che si
voglia utilizzare la lotta alla mafia come un argomento di polemica interna.
Interessa di più accusare il nemico politico di debolezza o di connivenza verso
la mafia che costruire l’unità nazionale nella lotta contro di essa. Prendendo
atto che il problema non si risolve sul piano poliziesco o giudiziario, ma su
quello politico e sociale. Non c’è né una soluzione militare né una soluzione
giustiziale. Sarò più chiaro: ormai sono due anni che magistrati e poliziotti
annunciano di aver arrestato i capi della mafia. Ogni giorno decapitiamo la mafia.
Eppure, purtroppo, la mafia è sempre viva. Perché facciamo finta di non sapere
che i capi vengono sostituiti, com’è buona regola in ogni organizzazione.
LIMES Dunque per lei la prima priorità della nostra politica estera è la
politica interna?
COSSIGA Noi non possiamo più fare politica estera senza ricomporre l’unità
nazionale. Prima la facevamo anche grazie alle nostre divisioni. Adesso però
non possiamo più permettercele. Per questo io sono per una nuova Assemblea
costituente. Che non sarebbe solo un fatto istituzionale, ma un fatto
nazionale, un volare alto per ricomporre l’unità nazionale. Certamente non
possiamo ricostruire la nazione continuando a darci del fascista o del
comunista.
LIMES Ma nel frattempo non c’è il rischio di essere emarginati
dall’Europa che funziona?
COSSIGA Non è un rischio, è una realtà. Nel concetto di rischio è insita la
possibilità di un’alternativa, nel senso che la situazione è ancora aperta. Ma
temo che siamo già andati al di là, che l’Europa non ci voglia più. Almeno,
finché restiamo come siamo. Eppure io sono decisamente a favore dell’Europa a
due velocità. Io credo nell’Europa. Ma sono convinto che dovrà essere una cosa
completamente diversa da quella che abbiamo oggi. Prima l’Europa era al di qua
della cortina di ferro. Ora non possiamo più concepirla senza quei paesi che
impropriamente chiamiamo dell’Est, ma che sono il cuore dell’Europa. Praga,
Budapest, Cracovia, Varsavia, Bratislava cosa sono, Asia? I quattro cuori
dell’Europa hanno sempre battuto a Roma, a Parigi, a Londra (con tutti i suoi
distinguo) e a Praga. L’Italia può e deve essere parte di questo nuovo progetto
geopolitico.
LIMES Ma nel caso si formasse davvero un nucleo duro franco-tedesco, o
addirittura una Framania (fusione di Francia e Germania), che interesse
avrebbero questi paesi a tenerci dentro l’Europa?
COSSIGA Continuerebbero ad averlo, se non altro perché facciamo parte del
loro mercato. Ma naturalmente dovremo salvarci da soli, non aspettare la manna
dal cielo. D’altronde, qual è l’alternativa? O si fa il nucleo duro, o non si
fa nulla. Certo non faremo nessun passo avanti se restiamo nell’ambito attuale,
vincolati a quel documento di contabili che è il Trattato di Maastricht. Un
trattato senz’anima, in cui non c’è traccia dei fatti epocali dell’Ottantanove.
Si vede benissimo che è un testo scritto negli uffici studi delle Banche
centrali, neanche negli uffici studi dei ministeri degli Esteri…
LIMES Ma in uno scenario framanico non c’è il rischio di spaccare
l’Italia? Una parte potrebbe andare con l’Europa franco-tedesca, l’altra
restare a galla nel Mediterraneo afro-balcanico.
COSSIGA Sì. Il rischio c’è. La persistente frattura fra Nord e Sud e il suo
possibile uso geopolitico resta l’unica grande intuizione di quel partito della
borghesia stracciona – lo dico in senso non offensivo, un Lumpenburgertum
nell’accezione sociologico- marxista del Lumpenproletariat, cioè di un
proletariato senza coscienza di classe – che è la Lega. Bossi ha capito che
l’Europa può spaccare l’Italia, e lui vuole essere sicuro che il suo Nord resti
in Europa. Ma questo deve spingerci ad accelerare la ricomposizione della
nazione, non a frenare il nucleo duro o durissimo. Altrimenti, seguendo questa
obiezione, non avendo un esercito forte avremmo dovuto boicottare il rapporto
speciale tra Francia e Germania nell’ambito atlantico. Ricorderò
sempre
quello che mi disse Helmut Schmidt, uno dei maggiori statisti che io abbia mai
incontrato, quando andai a trovarlo nel 1984 nella sua piccola casa alla
periferia di Amburgo: «Senza un rapporto speciale tra Francia e Germania non
faremo mai l’Europa. Capisco che voi possiate essere gelosi, ma non c’è
alternativa». Io non so se un giorno potrò realizzare il mio vecchio sogno di
diventare ministro degli Esteri (tranquilli, si tratta solo di un sogno!). Però
ho imparato, nella mia esperienza politica internazionale, che non c’è cosa più
dannosa per l’interesse nazionale di voler strafare. Se cerchi di
sovradimensionarti nel campo della politica estera ti rendi ridicolo. E quando
viene il momento del redde rationem sono dolori. Dobbiamo fare politica estera
per quello che siamo, né più né meno. Non siamo la Francia o la Germania. E
tuttavia possiamo fare molto, nell’interesse comune degli alleati, se siamo
consapevoli di noi stessi. Certo, se vedo come ci siamo estraniati dalla guerra
in Jugoslavia – anche perché i nostri alleati ci hanno voluto estraniare con
vari pretesti – non posso che allarmarmi. Ma è chiaro che quando gli amici
occidentali guardano in casa nostra, e vedono caos e lotte di fazione, non
possono avere fiducia in noi. Questa fiducia dobbiamo riconquistarcela sul
campo. Non c’è più molto tempo per farlo.