COSSIGA Per capire il declino attuale conviene anzitutto analizzarne le
origini. E dunque ricordare quale fosse la nostra collocazione geopolitica
durante la guerra fredda. Noi eravamo un paese doppiamente di confine:
c’era un confine esterno, con i paesi dell’Est, ma allo stesso tempo
esisteva un confine interno, giacché la cortina di ferro attraversava
l’Italia e la spaccava in due – «occidentali» amici dell’America e
«orientali» amici dell’Unione Sovietica.
L’Italia era segnata da una contrapposizione ideologica e di civiltà. Gli
equilibri politici nazionali erano condizionati dalla costellazione
geopolitica mondiale. Ricordo ancora un colloquio con Giuseppe Saragat,
negli anni Cinquanta: «Ma perché cosa credi che io abbia rotto l’unità con
i socialisti, se non per scegliere l’America, l’alleanza Atlantica,
l’Occidente?» È chiaro che in questa condizione l’Italia era più un
oggetto che un soggetto della politica internazionale. La scelta atlantica
era obbligata. Su di essa convergevano l’interesse nazionale italiano e
l’interesse ecclesiastico vaticano: non solo non eravamo in grado di
garantire la nostra indipendenza senza l’ombrello atlantico, ma esso era
necessario anche a proteggere la sicurezza della Santa Sede, l’organo
centrale della Chiesa cattolica incastonato nel nostro territorio. Il
fatto curioso è che l’opzione atlantica del Vaticano era più ecclesiastica
che cattolica. Corrispondeva agli interessi di sicurezza della Santa Sede,
molto meno al sentire di buona parte del cattolicesimo politico italiano.
Nella Dc, la sinistra dossettiana era neutralista. Poi si allineò con De
Gasperi, ma solo perché la neutralità si era rivelata impraticabile. Il
nostro fu un atlantismo di necessità, un atlantismo minimalista. Questo
spiega, fra l’altro, perché noi non siamo diventati una potenza militare
al livello di paesi di analogo peso economico e demografico, tipo Francia
o Gran Bretagna…
LIMES Forse anche perché avevamo perso la guerra…
COSSIGA Ma agli americani non importava nulla che avessimo perso la guerra!
Loro ragionavano nel nuovo contesto bipolare. O di qua o di là. Su di noi
ha sempre pesato il sospetto del neutralismo. I nostri alleati ci
consideravano atlantisti per necessità, non convinti.
LIMES Non si fidavano di noi?
COSSIGA Non completamente. Basti ricordare che nella rete atlantica di Stay
Behind entrò prima la Germania dell’Italia. A noi non ci volevano.
Entrammo solo grazie alla mediazione della Francia.
LIMES Intende dire che furono i francesi a sponsorizzare Gladio?
COSSIGA Gladio è un’invenzione. Lei sa benissimo che non c’è un documento
che parli di Gladio. No, io intendo la rete atlantica di Stay Behind –
ricordo l’acronimo: «S./B.» – che avrebbe dovuto organizzare la resistenza
nei paesi alleati in caso di aggressione dall’Est. Un organismo di non
grandissima importanza, creato sulla base dell’esperienza dello Special
Operation Executive voluto da Churchill e dell’OSS ( Office of Strategic Services ) americano.
LIMES Quanto contava la presenza del maggiore partito comunista
dell’Occidente nella percezione dell’Italia come paese inaffidabile?
COSSIGA Noi avevamo metà del paese dall’altra parte. I concetti
fondamentali su cui si incardina l’unità nazionale dei nostri partner
occidentali – patria e libertà da noi non erano valori condivisi. Su di
essi l’Italia era spaccata. I comunisti avevano un’idea di patria diversa
da quella che avevamo noi democristiani, sull’altro versante della cortina
di ferro interna. Non erano traditori della patria. Semplicemente, ne
avevano un’altra concezione. In entrambi, comunisti e democristiani, il
concetto di patria era fortemente temperato dall’influenza del comunismo
internazionalista, d’un lato, e della Chiesa, dall’altro. La verità è che
nell’Italia della guerra fredda c’erano quattro tipi di lealtà, due da una
parte e due dall’altra della frontiera interna: noi democristiani eravamo
fedeli all’Italia e all’Alleanza Atlantica ma anche, in gran parte, alla
Chiesa; loro comunisti erano divisi fra fedeltà nazionale e legame critico
con il campo sovietico. Le radici della tragedia italiana sono tutte qui.
Solo quando riusciremo a ricostruire un comune sentimento di patria
potremo riconquistare il nostro posto nel mondo occidentale.
LIMES Per voi democristiani si poneva dunque un dilemma geopolitico e morale:
essere fedeli all’Italia o alla Chiesa?
COSSIGA Confesso che non abbiamo mai avuto il coraggio di affrontare
apertamente questo problema.
LIMES Ma lei personalmente …
COSSIGA Io non sono assolutamente un caso tipico di cattolico
democristiano. Sono stato educato in una famiglia schierata con la
Repubblica durante la guerra civile spagnola. Per me, cattolico liberale,
il problema era già risolto in partenza.
LIMES Ma per De Gasperi, per Moro, per Andreotti?
COSSIGA Distinguiamo. De Gasperi, educato in uno Stato vero come l’impero
austro-ungarico, era un cattolico laico, liberale. La sua scelta per il
Patto Atlantico era insieme politica e di civiltà. Moro era un realista.
Accettò l’atlantismo per ragionamento, non per convinzione. La scelta
coscienziale di Moro sarebbe stata certamente, come per Dossetti, in
favore di un’Italia neutrale. L’atlantismo di Andreotti fu frutto di una
grande mediazione. Andreotti coniugò bene – fedeltà alla Chiesa e fedeltà
allo Stato. Sarebbe molto interessante studiare la politica estera
andreottiana e osservare quante volte egli tenne conto, per ragioni di
convinzione personale ma anche di equilibri geopolitici, degli interessi
della Chiesa.
LIMES Per esempio?
COSSIGA Prendiamo la guerra del Golfo. Io, come presidente della Repubblica
e capo supremo delle forze armate, non ebbi alcuna titubanza, se non per
quel che attiene a ogni coscienza pacifica e cristiana, a portare in
guerra il mio paese. Sapevo bene che non era questa la posizione della
Santa Sede. Sono testimone del fatto che invece questo per Andreotti fu un
problema.
Lui era preoccupato di coniugare le strategie italiana e vaticana più di
quanto non lo fossi io. E questo gli americani non lo apprezzarono. In
realtà, la sindrome dell’8 settembre non ha mai cessato di incombere su di
noi, nella percezione dei nostri maggiori alleati.
LIMES Vuol dire che lo stereotipo dell’italiano infido e traditore contava in
seno alla Nato più della minaccia comunista?
COSSIGA Le risponderò con un aneddoto. Quando ero ministro dell’Interno mi
occupavo naturalmente anche dei finanziamenti sovietici al Pci. La cosa
non mi turbava affatto. Io non mi sono mai scandalizzato perché i nostri
comunisti ricevevano soldi da Mosca. Durante una riunione di alti
funzionari del ministero, in cui si analizzava il trasferimento fisico del
denaro d’oltrecortina a Roma, a un certo punto domandai: «In che valuta
commerciano?». Risposta: «Dollari». «Allora lasciateli in pace!». La cosa
divertente è che poi gli americani andavano dai cambiavalute clandestini a
ricomprarsi i dollari mandati da Mosca a Botteghe Oscure. E sa perché? Non
perché gliene importasse nulla che i soldi arrivassero al Pci, per carità…
No, il Tesoro americano temeva che fossero falsi! Né mi sono scandalizzato
quando abbiamo scoperto la «Gladio Rossa», cioè l’organizzazione creata
d’accordo con il Kgb dal Partito comunista per salvare i compagni,
portandoli fuori dell’Italia in caso di pericolo. Ironia della storia, il
termine usato dalla «Gladio Rossa» per definire questa operazione era lo
stesso adoperato da Stay Behind: «esfiltrare». Ecco perché mi sento più
laico dei comunisti: loro si scandalizzano perché noi avevamo Stay Behind,
mentre io non mi turbo affatto per la loro «Gladio Rossa». Avevamo
semplicemente lealtà diverse, nel ben determinato contesto della guerra
fredda. Come diceva la grande spia Philby, «questa non è una guerra fra
nazioni, è una guerra fra religioni; e io mi schiero dalla parte dei miei
compagni di fede».
LIMES Un paese doppiamente di confine, con quattro lealtà e due sovranità –
la nazionale e l’ecclesiastica: lei sta descrivendo l’estrema
complicazione della costituzione geopolitica italiana e la diffidenza
che essa suscitava nei nostri partner. Era quindi inevitabile il nostro
basso profilo internazionale?
COSSIGA È chiaro che noi potevamo giocare solo di rimessa. La nostra
dimensione di potenza era troppo limitata per immaginarci come un soggetto
importante sulla scena mondiale. Essere percepiti dai nostri migliori
amici come dei potenziali neutralisti certo non ci avvantaggiava. Ricordo
che una volta, da sottosegretario alla Difesa, scandalizzai i militari che
mi stavano ascoltando con una frase infelice: «Il nostro rapporto con
l’alleanza Atlantica oscilla tra il servilismo e il tradimento». Purtroppo
era vero. Lo stesso schema si riproduceva sull’altro versante del confine
interno, fra i comunisti nostrani. I quali erano ideologicamente e
antropologicamente diversi dai sovietici. E come noi eravamo guardati con
sospetto dagli alleati occidentali, così loro non piacevano affatto ai
compagni orientali. Questa struttura geopolitica interna finiva per
spingere l’Italia verso una propria piccola Ostpolitik. Certamente noi
fummo il paese occidentale più attivo per favorire la distensione con
l’Est. La grande intuizione di Andreotti fu di collegarci alla Ostpolitik
vaticana – ecco un caso di perfetta coincidenza di interessi fra Italia,
da entrambi i lati della sua cortina di ferro, e Santa Sede.
LIMES Come spiega che questo paese vocazionalmente pacifista e neutralista
optò per gli euromissili? Può raccontarci come maturò quella scelta, di
cui lei fu protagonista in quanto presidente del Consiglio?
COSSIGA Effettivamente la scelta di avallare l’installazione degli
euromissili, nel dicembre 1979, appare singolare in questo quadro. Essa fu
determinante, in quanto la Germania aveva fatto sapere che avrebbe
risposto di sì solo se anche l’Italia avesse accettato di ospitare i
missili a medio raggio Pershing e Cruise. Noi democristiani fummo
compatti, e anche laici e socialisti. D’altronde l’Italia aveva sempre un
rapporto speciale con la Germania occidentale in seno all’Alleanza
Atlantica, anche per i legami privilegiati fra i due grandi partiti
cristiano-democratici europei, la CDU e la Dc. Ma la verità è che potemmo
installare gli euromissili perché il Pci rinunciò a un’opposizione
frontale. Quando Ponomarev venne qui per convincermi con le blandizie e
con le minacce a rompere il fronte atlantico, l’altra faccia della sua
missione era di spingere i comunisti a scendere in piazza contro i
missili. Ma Berlinguer rifiutò.
LIMES Insomma Berlinguer le fece capire che non era contro gli
euromissili?
COSSIGA Berlinguer e io avemmo dei divertentissimi colloqui. Due cugini
sardi, che nel salotto buono del segretario di Enrico, Tonino Tatò,
mangiando panini al prosciutto preparati dalla padrona di casa, Giglia
Tedesco, discutevano di questioni strategiche e di missili, è una cosa che
non dimenticherò mai… Oggi posso dire che allora informai gli alleati che
per far passare gli euromissili avevo bisogno, non dico di una politica
bipartisan, ma almeno di informare correttamente l’opposizione. Per questo
mi feci dire dalla Nato ciò che era un segreto non comunicabile al Pci, e
diedi garanzie sull’affidabilità di Berlinguer. Devo dire che noi, per
rispetto verso il Pci, non approfittammo quanto avremmo potuto dei loro
canali di comunicazione con Mosca per conoscere le reali intenzioni del
Cremlino e le sue covert operations in Italia. Un giorno potrò raccontare
come io stesso, dopo la caduta del Muro di Berlino, mi preoccupai di
impedire che il crollo dell’Unione Sovietica creasse imbarazzo al Partito
comunista italiano.
LIMES Ma questa Italia della Prima Repubblica era o non era un
semiprotettorato americano? Che margini di manovra avevamo?
COSSIGA Non si capisce nulla se non si parte dal fatto che la guerra fredda
era guerra. Non combattuta sui campi di battaglia, ma pur sempre una
guerra. Da cui l’Unione Sovietica è uscita sconfitta e poi distrutta. Da
una parte, c’era il dominio sovietico. Dall’altra parte, c’era una
sovranità elastica americana. Qualunque alleanza si impernia su una
potenza egemone. Il grado di libertà degli altri dipende dalla loro forza
relativa nei confronti del leader. Noi eravamo uno dei soggetti più
deboli. Non dico che fossimo un protettorato americano, ma insomma…
Sarebbe interessante riesaminare da quest’angolo geopolitico
internazionale certi fenomeni che da noi sono stati classificati solo come
espressione della corruzione o della deviazione di apparati dello Stato.
Ad esempio, la P2. Io credo che la P2 fosse l’associazione degli ultrà
filo atlantici e filoamericani, naturalmente condita all’italiana. Lo so
che va contro lo stereotipo corrente, ma se non ci liberiamo degli
stereotipi non capiremo mai niente della nostra storia. E non potremo
andare avanti. Noi avevamo certamente dei rapporti speciali con gli
americani. Anche per la presenza della Santa Sede e del Pci, l’America era
molto interessata alla stabilità dell’Italia e interveniva ogni volta che
fosse necessario colmare il nostro deficit di Stato incapace di garantire
la propria indipendenza.
LIMES In termini strategici concreti, che cosa vuol dire?
COSSIGA Vuol dire che siccome il nostro sistema interno della quadruplice
lealtà ci impediva di costruire un esercito forte, per gli americani
eravamo la loro portaerei nel Mediterraneo. A chi come me conosce per
motivi di ufficio i piani strategici della Nato in caso di aggressione
dall’Est, questo ruolo dell’Italia è molto chiaro. Noi eravamo la
piattaforma per operazioni strategiche degli alleati. Era previsto perfino
l’arrivo di una divisione di paracadutisti portoghesi!
LIMES E nei piani di attacco?
COSSIGA La Nato non ha mai avuto piani di attacco. Ha avuto piani di
risposta nucleare, ma non ha mai studiato l’aggressione all’Urss.
LIMES In caso di attacco del Patto di Varsavia l’Italia doveva essere
abbandonata ai sovietici?
COSSIGA Non c’è dubbio che gli americani volessero difenderci. Ma molto
sarebbe dipeso dalla tenuta del fronte interno, dalla scelta che avrebbe
fatto il Partito comunista. Se ricordo bene – sono informazioni che
abbiamo avuto dopo l’Ottantanove – i sovietici prevedevano di conquistare
l’Italia abbastanza rapidamente, in tre tappe. In una prima fase l’attacco
sarebbe stato portato lungo due direttrici, verso Padova e Bergamo,
partendo dall’Ungheria, secondo lo schema della Strafexpedition. Infatti,
siamo venuti poi a sapere che durante una riunione del Patto di Varsavia a
Bucarest il ministro della Difesa ungherese protestò con il sovietico
comandante in capo delle forze del Patto quando scoprì che il peso
iniziale dell’attacco all’Italia avrebbe dovuto essere sopportato dai suoi
uomini, mentre l’Ungheria era sotto il tiro della nostra aviazione in caso
di ritorsione nucleare. E si accorse che era lo stesso giochetto che gli
avevano tirato gli austriaci nella prima guerra mondiale, quando contro di
noi avevano mandato avanti gli ungheresi! La seconda fase prevedeva la
costituzione di una sorta di Linea Gotica rovesciata; infine era
pianificato lo sbarco in Sicilia e in Sardegna. E infatti in caso di
invasione della Sardegna avremmo dovuto trasferire il comando di Stay
Behind, lì insediato, verso una località che non posso citare perché
questo è uno dei pochi segreti che la Nato è riuscita a farci
rispettare.
LIMES E per i sovietici, quanto era importante l’obiettivo Italia?
COSSIGA È difficile dirlo. Però vorrei citare un fatto curioso. Ormai si sa
molto sulle operazioni di infiltrazione e disinformazione sovietiche nei
paesi alleati. Ad esempio, è accertato che molti dei cosiddetti scandali
politici o militari nella Germania occidentale erano orchestrati da agenti
di Mosca. In Italia, invece, c’è un buco totale. La penetrazione
sofisticatissima del Kgb e del Gru in America, in Canada, in Europa,
occidentale, sembra non riguardare l’Italia. Perché? Nessuno è mai
riuscito a spiegarlo. Ma forse la ragione era, e spero che i miei amici
comunisti non se ne adombrino, che non ne avevano bisogno perché c’era il
Pci. E quindi gli interessi dello schieramento comunista internazionale
erano tutelati in Italia direttamente da Botteghe Oscure. La presenza del
Pci all’interno delle forze armate e di polizia era tale che non c’era
bisogno di altro.
LIMES Come si inquadra il terrorismo nel grande gioco internazionale intorno
all’Italia?
COSSIGA In tutta la mia vita politica io sono sempre stato un sostenitore
del carattere «nazionale» dei brigatisti rossi: è una pura fantasia
collegare le Br all’Est o anche all’Ovest. No, le Br erano italiane, sono
nate e morte nel nostro ambiente sociale e culturale. Esse sono state il
prodotto della conversione del Pci alla democrazia. Fin dal mito della
«Resistenza tradita» circolava una domanda sovversiva all’interno della
sinistra che, bloccato il canale Pci, trovò sfogo nelle Brigate rosse. Più
in generale, il capitolo terrorismo aspetta ancora di essere chiarito.
Escludo però la mano del blocco orientale nella sovversione di sinistra.
Naturalmente escludere che i gruppi terroristici fossero pilotati da Mosca
non significa che essi non potessero essere infiltrati da agenti
stranieri. Ma infiltrati per sapere che cosa fossero, non per guidarli,
che era impossibile. Del resto un giorno si scoprirà una cosa
affascinante: come il Kgb avesse infiltrato il Partito comunista per
controllarlo, certo senza successo! Ma so con certezza che fra i nomi di
italiani sospettati di lavorare per Mosca non c’erano membri del Pci, né
persone che avessero anche solo collegamenti esterni con esso.
LIMES E le stragi sono anch’esse autoctone, oppure si inseriscono in un
disegno geopolitico internazionale?
COSSIGA Le stragi restano avvolte nel mistero. Io non mi meraviglierei però
se un giorno si scoprisse che anche spezzoni di servizi di paesi alleati o
neutrali, non solo nemici, avessero potuto avere interesse a mantenere
alta la tensione in Italia tra il fronte comunista e quello anticomunista.
E quindi a tenere basso il profilo geopolitico dell’Italia. Sulle stragi
ci sono due concezioni estreme, entrambe sbagliate. Quelli che, come i
fratelli Cipriani, leggono tutto in chiave di teoria del complotto – la
dietrologia come storiografia. E quelli che rifiutano qualsiasi ipotesi di
strategia internazionale nello stragismo. Fra i due estremi passa la
verità che ancora nessuno conosce.
LIMES Spesso si è parlato di collegamenti fra stragismo, terrorismo e mafia.
Secondo lei il fatto che Cosa Nostra controllasse e controlli un’ampia
fetta del territorio nazionale ci penalizzava nell’ambito alleato?
COSSIGA Ci penalizzava come immagine, certo. Ma la mafia non ha mai
costituito un pericolo per l’Alleanza Atlantica. Anzi, tendo a pensare il
contrario… Ma certamente era e resta un pericolo per lo Stato
italiano.
LIMES Per tornare alla questione iniziale, lei mi pare stia confermando che
c’era un interesse generale, dell’Est ma anche delI’Ovest, a che
l’Italia contasse poco. E che anche le bombe potevano servire a questo
scopo.
COSSIGA Sì. Ma al tempo della guerra fredda noi avevamo un grande vantaggio
che oggi abbiamo perduto. Avevamo una politica estera di riferimento,
quella americana e della Nato. In questo ambito, potevamo sfruttare
l’utilità marginale, la rendita geopolitica di essere un paese di
frontiera che aveva al suo interno un confine e che, inoltre, ospitava sul
suo territorio la Santa Sede…
LIMES Ma eravamo veramente la frontiera orientale della Nato? Non era la
Jugoslavia il primo paese che avrebbe dovuto fronteggiare un eventuale
attacco da Est?
COSSIGA È vero. Non potremo mai sopravvalutare il ruolo della Jugoslavia.
Non avremmo potuto fare la nostra politica di basso profilo nell’ambito
dell’Occidente – che voleva dire evitare di spendere per un vero esercito
e affidarsi alla protezione esterna – se non ci fosse stata la creatura di
Tito. Noi dobbiamo essere eternamente grati alla Jugoslavia per averci
evitato il contatto diretto con il Patto di Varsavia. Se non vi fosse
stata la Jugoslavia avremmo dovuto destinare ben altra quota del nostro
reddito alle armi, a spese del benessere generale.
LIMES Non tutti erano consapevoli, da noi, dell’importanza di questo tampone
geostrategico…
COSSIGA Io certamente sì. E credo che quando si riscriverà la storia
d’Italia nel dopoguerra dovremo rivalutare la funzione- chiave della
Jugoslavia. Nei piani segreti del Patto di Varsavia la Federazione titina
era considerata paese nemico. Però è vero che non tutti ne prendevano
atto. Ricordo che quando, da presidente del consiglio, fu portato alla mia
decisione un accordo bilaterale economico con la Jugoslavia, alcuni
funzionari mi fecero notare che c’erano dei problemi riguardanti il
commercio di tabacco. Io chiesi loro se non fossero diventati matti. Ma
come, con un partner di questa importanza noi ci disperdiamo negli
economicismi, nelle diatribe sul tabacco?
LIMES Adesso però questo relativo comfort geopolitico è finito.
COSSIGA È finito per sempre. Per questo, appena crollato il Muro di
Berlino, io lanciai l’allarme. Dopo l’unificazione della Germania, nulla
sarebbe stato più come prima, nella politica interna come in quella
estera. Ma mi presero per matto, preferirono continuare a far finta di
niente. Che cosa è cambiato, infatti? Primo, l’America è meno interessata
a un’Europa non più terreno di contesa con la superpotenza sovietica.
Eppoi le macerie del Muro ci hanno riportato alla realtà sull’Europa, al
di là della retorica: altro che soggetto politico-strategico, in realtà
era e resta una specie di Comecon rovesciato, una costruzione puramente
economicistica. Secondo, l’indipendenza della Chiesa non ha più bisogno di
essere protetta, perché non è più minacciata. Terzo, è scomparso il Pci. E
non c’è più nemmeno la Dc, il che vuol dire fine del rapporto speciale con
la CDU, e quindi con la Germania. Con gli Stati Uniti resta un legame
particolare, ma con noi nella parte dell’intendenza. Che cosa facciamo per
i nostri alleati nel conflitto bosniaco? Offriamo le basi militari.
LIMES Come mai non abbiamo mai chiesto un dazio agli americani? Non abbiamo
nemmeno ridiscusso gli accordi segreti sulle loro basi in Italia, roba
da anni Cinquanta…
COSSIGA Il dazio era la protezione che ci garantivano. E che adesso non c’è
più.
LIMES E allora secondo lei che possiamo fare?
COSSIGA Dobbiamo porci la domanda che abbiamo sempre evitato: qual è il
nostro interesse nazionale? Come possiamo difendere i nostri interessi in
un mondo così complicato? Prima avevamo dei riferimenti obbligati: la
nostra politica militare era quella della Nato, la nostra politica
economica era quella della Comunità europea, la nostra politica ideologica
era quella della Chiesa. Al massimo ci prendevamo qualche piccola libertà,
grazie alla sicurezza strategica garantitaci dall’esterno. E adesso che
facciamo? Prima apriamo un dibattito democratico sull’interesse nazionale,
meglio è. Il senso del mio allarme, subito dopo l’Ottantanove, era tutto
qui. Ero e sono spaventato dalla divisione del paese. Anziché unirsi, dopo
la fine della guerra fredda l’Italia si è ulteriormente spaccata. Le
vecchie armi ideologiche non sono state deposte. Ma dobbiamo capire che o
riusciamo a riunificare la comunità nazionale intorno ai valori
fondamentali, all’idea di patria e all’interesse nazionale, oppure non
potremo più fare politica estera. Prendiamo un esempio concreto: il nostro
interesse nazionale è di combattere la mafia. Ma sembra quasi che si
voglia utilizzare la lotta alla mafia come un argomento di polemica
interna. Interessa di più accusare il nemico politico di debolezza o di
connivenza verso la mafia che costruire l’unità nazionale nella lotta
contro di essa. Prendendo atto che il problema non si risolve sul piano
poliziesco o giudiziario, ma su quello politico e sociale. Non c’è né una
soluzione militare né una soluzione giustiziale. Sarò più chiaro: ormai
sono due anni che magistrati e poliziotti annunciano di aver arrestato i
capi della mafia. Ogni giorno decapitiamo la mafia. Eppure, purtroppo, la
mafia è sempre viva. Perché facciamo finta di non sapere che i capi
vengono sostituiti, com’è buona regola in ogni organizzazione.
LIMES Dunque per lei la prima priorità della nostra politica estera è la
politica interna?
COSSIGA Noi non possiamo più fare politica estera senza ricomporre l’unità
nazionale. Prima la facevamo anche grazie alle nostre divisioni. Adesso
però non possiamo più permettercele. Per questo io sono per una nuova
Assemblea costituente. Che non sarebbe solo un fatto istituzionale, ma un
fatto nazionale, un volare alto per ricomporre l’unità nazionale.
Certamente non possiamo ricostruire la nazione continuando a darci del
fascista o del comunista.
LIMES Ma nel frattempo non c’è il rischio di essere emarginati dall’Europa
che funziona?
COSSIGA Non è un rischio, è una realtà. Nel concetto di rischio è insita la
possibilità di un’alternativa, nel senso che la situazione è ancora
aperta. Ma temo che siamo già andati al di là, che l’Europa non ci voglia
più. Almeno, finché restiamo come siamo. Eppure io sono decisamente a
favore dell’Europa a due velocità. Io credo nell’Europa. Ma sono convinto
che dovrà essere una cosa completamente diversa da quella che abbiamo
oggi. Prima l’Europa era al di qua della cortina di ferro. Ora non
possiamo più concepirla senza quei paesi che impropriamente chiamiamo
dell’Est, ma che sono il cuore dell’Europa. Praga, Budapest, Cracovia,
Varsavia, Bratislava cosa sono, Asia? I quattro cuori dell’Europa hanno
sempre battuto a Roma, a Parigi, a Londra (con tutti i suoi distinguo) e a
Praga. L’Italia può e deve essere parte di questo nuovo progetto
geopolitico.
LIMES Ma nel caso si formasse davvero un nucleo duro franco-tedesco, o
addirittura una Framania (fusione di Francia e Germania), che interesse
avrebbero questi paesi a tenerci dentro l’Europa?
COSSIGA Continuerebbero ad averlo, se non altro perché facciamo parte del
loro mercato. Ma naturalmente dovremo salvarci da soli, non aspettare la
manna dal cielo. D’altronde, qual è l’alternativa? O si fa il nucleo duro,
o non si fa nulla. Certo non faremo nessun passo avanti se restiamo
nell’ambito attuale, vincolati a quel documento di contabili che è il
Trattato di Maastricht. Un trattato senz’anima, in cui non c’è traccia dei
fatti epocali dell’Ottantanove. Si vede benissimo che è un testo scritto
negli uffici studi delle Banche centrali, neanche negli uffici studi dei
ministeri degli Esteri…
LIMES Ma in uno scenario framanico non c’è il rischio di spaccare l’Italia?
Una parte potrebbe andare con l’Europa franco-tedesca, l’altra restare a
galla nel Mediterraneo afro-balcanico.
COSSIGA Sì. Il rischio c’è. La persistente frattura fra Nord e Sud e il suo
possibile uso geopolitico resta l’unica grande intuizione di quel partito
della borghesia stracciona – lo dico in senso non offensivo, un
Lumpenburgertum nell’accezione sociologico- marxista del
Lumpenproletariat, cioè di un proletariato senza coscienza di classe – che
è la Lega. Bossi ha capito che l’Europa può spaccare l’Italia, e lui vuole
essere sicuro che il suo Nord resti in Europa. Ma questo deve spingerci ad
accelerare la ricomposizione della nazione, non a frenare il nucleo duro o
durissimo. Altrimenti, seguendo questa obiezione, non avendo un esercito
forte avremmo dovuto boicottare il rapporto speciale tra Francia e
Germania nell’ambito atlantico.
Ricorderò sempre quello che mi disse Helmut Schmidt, uno dei maggiori statisti che
io abbia mai incontrato, quando andai a trovarlo nel 1984 nella sua
piccola casa alla periferia di Amburgo: «Senza un rapporto speciale tra
Francia e Germania non faremo mai l’Europa. Capisco che voi possiate
essere gelosi, ma non c’è alternativa». Io non so se un giorno potrò
realizzare il mio vecchio sogno di diventare ministro degli Esteri
(tranquilli, si tratta solo di un sogno!). Però ho imparato, nella mia
esperienza politica internazionale, che non c’è cosa più dannosa per
l’interesse nazionale di voler strafare. Se cerchi di sovradimensionarti
nel campo della politica estera ti rendi ridicolo. E quando viene il
momento del redde rationem sono dolori. Dobbiamo fare politica estera per
quello che siamo, né più né meno. Non siamo la Francia o la Germania. E
tuttavia possiamo fare molto, nell’interesse comune degli alleati, se
siamo consapevoli di noi stessi. Certo, se vedo come ci siamo estraniati
dalla guerra in Jugoslavia – anche perché i nostri alleati ci hanno voluto
estraniare con vari pretesti – non posso che allarmarmi. Ma è chiaro che
quando gli amici occidentali guardano in casa nostra, e vedono caos e
lotte di fazione, non possono avere fiducia in noi. Questa fiducia
dobbiamo riconquistarcela sul campo. Non c’è più molto tempo per
farlo.